IRAN: l’esecuzione di Reyhaneh Jabbari <<quando aspettarsi giustizia dai giudici significa essere ottimisti>>

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Ancora un altro tentativo di giustizia miseramente fallito, costato questa volta la vita ad una giovane donna. E’ la storia di Reyhaneh Jabbari, la ventiseienne iraniana condannata a morte e giustiziata per impiccagione lo scorso 25 ottobre, per aver ucciso l’uomo che aveva tentato di stuprarla. Non si sarebbe trattato quindi, per la corte Suprema dell’Iran, di legittima difesa: al termine di un processo durato ben sette anni e della cui equità si dubita alla luce di numerose irregolarità verificatesi nel corso dello stesso, la donna è stata condannata per omicidio premeditato. Eppure, a Reyhaneh, è stata offerta una via di fuga dal braccio della morte: il perdono dalla famiglia della vittima, che avrebbe ottenuto soltanto negando l’asserito tentativo di violenza sessuale, l’avrebbe salvata convertendo la pena di morte in detenzione. Ma Reyhaneh ha scelto di perseverare per i suoi valori, la giustizia e la verità, anche a costo di morire. E’ ciò che ha scritto nell’ultima lettera indirizzata alla madre dalla quale emerge la delusione della donna nei confronti di una giustizia che poi <<giusta>> non è. Molto lontano dal sistema giudiziario dei Paesi occidentali, quello Iraniano ritiene di agire secondo la superiore volontà di Allah: la Corte Suprema ha lasciato che a decidere della vita della giovane fossero i familiari dell’uomo ucciso. Inutili gli appelli che si sono levati dalla comunità internazionale contro l’esecuzione della donna e la pena di morte, inutili risultate anche le denunce di Amnesty International per la violazione dei diritti umani ormai appesi ad una corda, come il corpo di Reyhaneh. Ma le relazioni internazionali impongono cautela nel condannare quello che sembrerebbe un vero e proprio “stato canaglia”, perché la vita di una persona si sa, al giorno d’oggi,è anche una questione politica. E allora dovuto appare l’invito rivolto alla comunità internazionale affinché si faccia portavoce della salvaguardia dei diritti umani fondamentali -in questo caso il diritto alla vita e quello ad un giusto processo-perché il sacrificio e il coraggio di Reyhaneh non siano dimenticati e perché sia la giustizia, e non una sanguinosa tradizione popolare, a fare il suo corso.

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