JOY

JOY

Joy (Joy Anwulika) è una ragazza nigeriana che dal suo paese è arrivata nella capitale austriaca in cerca di una vita migliore per sé e per la sua bambina. Prima di poter rincorrere i propri sogni è costretta a ripagare il caro prezzo della suo viaggio a Madame (Angela Ekelemen Pius), una maitresse, sua connazionale, che sfrutta ragazze africane impiegandole come prostitute nelle strade di Vienna. Le giovani o giovanissime appena arrivate, sono letteralmente comprate come merce in piccoli mercati clandestini e viene tolto o negato loro qualsiasi documento o accesso ai permessi di soggiorno.

Vengono poi sistemate in appartamenti condivisi con quattro, cinque o più ragazze e qui sono istruite su come fare, cosa indossare, come truccarsi o acconciarsi per portare a casa ogni mese uno stipendio di mille euro che Madame puntualmente riscuote. Joy, con i suoi sforzi, e grazie ad alcune conoscenze e ad un cliente particolarmente affettuoso è ad un passo dal riscattare l’intero debito e a voltare pagina, ma all’improvviso arriva in casa Precious (Precious Mariam Sanusi), poco più che adolescente, nigeriana anche lei, non pronta a fare ciò che dovrebbe, ciò che ci si aspetta da lei, ciò che lei stessa sapeva di dover andare a fare nella “terra della speranza”.

Così, Madame incarica Joy di controllare la nuova arrivata e aiutarla a lavorare, come fosse una sorella minore, poiché, qualora la piccola non fosse in grado di guadagnare il giusto, toccherebbe a Joy, “da sorella maggiore”, pagare per entrambe. Di nuovo alla catena, di nuovo in gabbia, di nuovo schiava, di nuovo annientato il proprio corpo in nome di una libertà che regala nuova vita a chi se la sa conquistare, ma che nel frattempo di vita se ne mangia tanta. Nasce così un rapporto conflittuale tra le due donne: si alternano momenti di scontro ed episodi di solidarietà perché c’è da condividere lo stesso odioso, iniquo, asfissiante destino, che sembra salvarne una ed affogarne cento, che svilisce l’essere femminile fino a rendere ordinaria amministrazione ogni violenza, che non ammette vie d’uscita per chi come Joy, Precious o infinite altre, nasce dalla parte sbagliata di mondo e per di più, nasce donna.

Chi si salverà?

Avere un’alternativa nella vita, una seconda possibilità dignitosamente percorribile è un lusso che non tutti gli esseri umani sembrano meritare: possiamo ancora accettare questo stato di fatto?

Vincitore dell’Europa Cinemas Label Award nonché dell’ Hearst Film Award, Joy, presentato alle Giornate degli Autori durante la 75° Mostra del Cinema di Venezia, è il secondo lungometraggio della regista Sudabeh Mortezai, artista austro-iraniana, attenta alle minoranze oppresse ed emarginate (si veda Macondo, sui rifugiati ceceni, suo primo lungometraggio) ed arriva dritto allo stomaco senza nessun tipo di indulgenza.

La narrazione asciutta e diretta disegna il sistema della tratta delle schiave del sesso provenienti dall’Africa senza lasciare scampo all’immaginazione: si entra nel mondo spento di queste giovani ragazze che non hanno scelta e sono sovraccariche di aspettative e responsabilità: dal denaro che riusciranno a raccogliere dipende, nel migliore dei casi, la sussistenza delle loro famiglie in Africa, nel peggiore, la sopravvivenza delle stesse: infatti i parenti sono spesso ostaggio degli sfruttatori europei che ricattano le giovani costringendole a fare ciò che non vogliono, pena l’incolumità dei propri cari. Ciò è possibile anche perché gli usurpatori della libertà di queste donne sono spesso africani, magari dello stesso stato, forse dello stesso villaggio di provenienza delle loro vittime e, soprattutto, come accade nel film, sono donne.

E questo è l’aspetto che, per sua stessa ammissione, più ha colpito ed interessato la regista durante il lavoro preparatorio del film.

Che una donna usi, perpetri, giustifichi, guidi un’organizzazione basata su atti di violenza sistematica nei confronti di altre donne è sicuramente un fatto ancora più difficile da digerire della vicenda in sè. Soprattutto in questo periodo di forti polemiche, grandi inni, scandali e battaglie contro il femminicidio, che siano donne a capo di certi meccanismi disumani è straziante, provoca rabbia e obbliga a fermarsi, riflettere e lavorare ancora molto.

D’altro canto le civilissime autorità europee, tollerano senza integrare, accolgono solo a parole, sfruttano e fanno finta di non vedere, latitano nelle loro complici burocrazie: chiedono denunce ma non offrono protezione. Né le famiglie di origine possono alcunché: lontane geograficamente, spesso sono promotrici di questi viaggi della speranza e indirizzano le malcapitate verso il traffico del sesso: le ragazze sanno cosa andranno a fare in Europa e le loro madri le spingono e le incoraggiano perché in fondo “non è poi così grave”. Ad addomesticare la loro volontà ci pensa anche un altissimo e cieco grado di superstizione: infatti, prima di partire, in molte sono costrette a fare un rito juju, una sorta di magia nera, con cui saranno maledette loro o i rispettivi parenti se non pagheranno il debito del viaggio a chi di dovere.

Questa è la Jungla in cui le varie Joy o le piccole Precious devono muoversi: non ci sono madri, fratelli, sorelle, alleati, amici, compagni, ci sei solo tu e quel qualcosa che sembra scontato, e che invece non abbiamo ancora imparato a riconoscerci reciprocamente nel mondo, la libertà. Perché l’autodeterminazione continua ad avere un costo che solo alcuni possono permettersi; per gli altri non c’è alternativa e se c’è ha il colore dell’Odissea di Joy, un nome di battesimo che contiene la verità capovolta del suo destino, come un beffardo ossimoro.

Il tutto racchiuso in poco più di un’ora e mezza di film, equilibratissimo, mai patetico né vittimistico, con dialoghi essenziali, ritmi serrati, paesaggi freddi, notturni, malinconici, lontani dall’immediata empatia, ma capaci di raccontare l’interiorità: i grandi occhi delle due protagoniste esordienti, commosse durante gli applausi della pubblica proiezione, a raccontare tutto e di più, un essere umano anche se disabituato all’umanità, un essere umano anche quando abdica alla fiducia reciproca, quando ingoia e tace, quando non spera oltre, ma ipoteca la propria vita con il corpo, la conta sulle banconote altrui, cade in piedi da sconfitto e ricomincia, per un briciolo di dignità in più, senza mai smettere, mai, di tenere i suoi grandi occhi aperti in faccia a tutto.

E Joy questo chiede, di non chiudere gli occhi.

Regia e Sceneggiatura: Sudabeh Mortezai

Fotografia: Klemens Hufnagl

Montaggio: Oliver Neumann

Cast: Joy Anwulika, Precious Mariam Sanousi, Angela Ekelemen Pius, Gift Igweh, Sandra John, Chika Kipo

 

A cura di Flavia G. De Lipsis

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