Salendo la meravigliosa scalinata di marmo di Palazzo Braschi in un uggioso sabato pomeriggio di novembre è iniziato il viaggio nel tempo indietro fino al 1700 della nostra redazione.
Muovendoci tra gli ampi saloni messi a disposizione per la mostra “Canova. Eterna Bellezza” abbiamo ammirato le opere come si faceva al tempo, utilizzando delle candele. Analizzato meglio ogni muscolo in tensione, ogni piega del tessuto dei marmi splendidamente scolpiti dal Canova.
La mostra, articolata in 13 sezioni, riassume il percorso dell’artista e il suo rapporto con la città di Roma.
Il Canova arriva nell’Urbe nel 1779 e se ne innamora fino a quando, da sempreantigiacobino, non è costretto ad abbandonarla all’epoca della Repubblica per rifugiarsi nella sua città natale, Possagno.
Furono tantissime le opere che l’artista – rapito dal loro fascino – studiò minuziosamente, rendendole testimoni e protagoniste del suo stretto rapporto con la città.
In mostra si ripercorrono gli itinerari compiuti dallo scultore alla scoperta di Roma, sin dal suo primo soggiorno. Nella penultima sala il visitatore si imbatte in una mostra nella mostra.
Attraverso 30 fotografie di Mimmo Jodice che ritraggono i marmi di Antonio Canova, il pubblico può ammirare le opere dello scultore attraverso lo sguardo di uno dei più grandi maestri della fotografia.
Tutto però inizia nell’ampia corte interna del palazzo dove è presente la più contemporanea riproduzione in scala reale del gruppo scultoreo di Amore e Psiche giacente di Antonio Canova.
Non mancano bozzetti, disegni, acquerelli, modellini e gessi per approfondire il lungo percorso che portava l’artista a realizzare i suoi capolavori.
Noi ne siamo rimasti affascinati e qui abbiamo raccolto qualche impressione e brevi spunti di riflessione sulle nostre operepreferite.
Abbiamo raccontato quelle che ci hanno fatto rimanere impalati ad ammirarle in piena sindrome di Stendhal, rimanendo indietro rispetto al resto del gruppo per poter cercare di esaminare e carpire ogni particolare, eternamente scolpito nel marmo e nella nostra memoria.
DANZATRICE CON LE MANI SUI FIANCHI
Un’entusiasmante capacità di Canova, che conquista immediatamente lo spettatore, è la particolare attitudine dello scultore ad animare le figure. Ne è splendido esempio il trittico sul tema della danza, scolpito tra il 1806 e il 1811, richiamante le tempere su carta che lo stesso Canova aveva disegnato alla fine del Settecento, su ispirazione dei dipinti parietali ammirati a Napoli e a Pompei.
Le tre statue delle danzatrici -“La Danzatrice con le mani sui fianchi”, “La Danzatrice con il dito sul mento” e “La Danzatrice con i cembali”- valorizzano straordinariamente l’estro creativo dello scultore; sono sorprendenti per la leggerezza dei corpi e la naturalezza delle movenze – sono sollevate da terra tanto da sembrare una trionfante sfida alla legge di gravità- e palesano chiaramente il desiderio ricreativo e giocoso di Canova, impaziente di sfuggire alla drammaticità dei tempi e di salvarsi dalle tormentate vicende storiche e personali.
La Danzatrice con le mani sui fianchi è la più famosa del trittico e il fiore all’occhiello di questa esposizione.
Fu stata scolpita in un blocco di marmo bianco di Carrara, tra il 1805 e il 1812, per l’imperatrice dei Francesi Josephine de Behaurnais, oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. Ottenne un grandioso successo già dalla prima esposizione al Salon di Parigi all’inizio del 1813: “Ha avuto un incontro smisurato: vi fu per i primi giorni una folla che non potete credere. La Danzatrice fa impazzir tutti” (così scriveva a Canova il suo amico e critico d’arte Quatremère, il 12 febbraio 1813).
La figura è posizionata sapientemente nell’ultima sala della mostra e svetta su una piattaforma rotante in modo da consentire a tutti i visitatori di averne una più completa visione; si staglia nella stanza illuminata fiocamente, per di più in un ambiente rivestito di specchi, e sembra quasi brillare nella contrapposizione tra il bianco marmoreo e la penombra circostante.
Di questa statua colpisce l’elegante plasticità della figura: l’artista ha infatti immortalato un’anonima giovane fanciulla, gioiosa e serena, dai capelli raccolti e trattenuti da una coroncina di fiori, intenta in una coreografia ignota. Il ritmo, la sinuosità sono tutti nel corpo che si intravvede sotto le leggerissime vesti trattenute con eleganza ai fianchi. I piedi nudi fino al polpaccio, sollevati con grazia e vigoria insieme, permettono il libero movimento del corpo e conferiscono slancio all’intera statua. Questa meravigliosa fatica di uno straordinario artista, di rendere nel marmo la lievità di un passo di danza, che a distanza di duecento anni, mantiene ancora inalterato il senso di meraviglia e stupore negli occhi di chi la contempla.
A cura di Leonardo De Marco
AMORE E PSICHE STANTI
La prima cosa che viene in mente guardando due persone che si abbracciano è che questi abbiano sicuramente un rapporto confidenziale. Amore e Psiche Stanti sono la rappresentazione sviluppata in verticale di una storia d’amore complessa che va ben oltre quello che si può solo immaginare o ipotizzare guardando due persone che si abbracciano. Considerando questa statua si percepisce che siamo in questo caso di fronte ad un abbraccio che coinvolge non solo i corpi dei protagonisti raffigurati ma che va oltre, va fino all’anima e al cuore. Le loro anime si sfiorano, mostrando il più puro degli abbracci, che incarna un amore profondo, tanto naturale quanto ingenuo. La dolcezza e la delicatezza nel tocco tra il viso di lei e la spalla di lui sono facilmente percettibili se anche solo un po’ si guarda attentamente. Analizzando il momento in cui viene fermato il tempo, risulta essere quello in cui Psiche sta tenendo in mano una farfalla, che sottopone all’attenzione dell’amato che le sta accanto. Guardando la posa e immaginando la dinamica della scena nell’istante prima di fermare il tempo, il fatto che si sia appoggiata fa presumere che abbia lei abbia raggiunto lui da lontano, che le sia andata incontro e dopo averlo raggiunto si sia poi accoccolata su di lui per permettergli di ammirare ciò che aveva trovato. A dirsi così sembrerebbe quasi una mossa spontanea e non premeditata a cui lo scultore ha voluto dare importanza per sottolineare proprio quanto bello sia un gesto così piccolo se dietro si cela un amore fanciullesco ad accompagnarlo, lo stesso che ti fa sentire a casa stando semplicemente tra le braccia dell’altro.
Da un punto di vista tecnico Canova è il maestro delle linee impassibilmente realistiche, quelle che fanno sembrare naturale che un marmo abbia potuto assumere sembianze umane. Ma se consideriamo che un pezzo di marmo riesce ancora oggi a suscitare tutto questo solo guardandolo si riesce a captare e apprezzare facilmente il dettagliato lavoro che Canova fa nelle sue opere, che va oltre lo scolpire un materiale duro e freddo. Questo lavoro consiste nell’immedesimarsi dello scultore nei sentimenti dei personaggi che si vogliono rappresentare, al fine di supporre quali mosse avrebbero fatto per potergli dare poi forma nella realtà.
Ecco che Canova ci mostra così l’arte del dare forma ai sentimenti che sono racchiusi nel profondo del cuore, e che lì dentro altrimenti vi rimarrebbero.
A cura di Paola Nardella
LE TESTE COLOSSALI DEI DIOSCURI
Sebbene non sia un’opera di Canova, il pezzo della mostra che mi ha colpito maggiormente è, o meglio sono, le Teste Colossali dei Dioscuri.
Quante volte ci siamo ritrovati appena dietro Piazza Venezia a salire la scalinata che porta al Campidoglio e a ritrovarci accolti dalle statue dei due gemelli Castore e Polluce, tra i leggendari avi del popolo Romano.
Tuttavia non mi ero mai resa conto di quanto potessero essere grandi le due statue finché non mi sono ritrovata alla mostra di Canova.
Le due teste, poste alla fine di una delle sale iniziali, sono state poste una accanto all’altra e sembra che si guardino con estrema intensità. Le bocche socchiuse danno l’impressione che si vogliano dire qualcosa, parole importanti che rimangono però scolpite nel marmo, e ci lasciano per sempre con il dubbio.
Pare che anche Canova rimase molto colpito da queste statue colossali, tanto da scrivere sui suoi Quaderni di viaggio: “Riflettendo meco stesso, mi parve che quelle Statue potessero più d’ogni altra darmi li veri precetti per bene intendere geometricamente le forme generali dell’uomo. Deliberai perciò di portarmi colà di buon mattino per lungo tratto di tempo per delinearne i contorni in qualunque punto”.
In questi suoi diari Canova ci ricorda un po’ quegli artisti di strada che ogni giorno vediamo in centro a Roma, intenti a dipingere i contorni dei palazzi della città, i suoi profili antichi eppure così armoniosi.
E’in ogni caso evidente che anche Canova provava come ancora noi oggi quel rispetto profondo nei confronti dell’antichità, del suo mistero millenario, racchiuso in quelle opere che, a un certo punto della storia dell’arte, l’uomo ha iniziato a ricopiare, come se volesse portare in vita degli antichi fasti.
Sono questi pensieri comuni, queste consapevolezze che la storia ci tramanda, che ci fanno sentire così vicini a questo grande artista
A cura di Raffaella de Meo
La cosa che più colpisce di queste opere, oltre al fatto che siano straordinariamente leggere, è il fatto che siano perfette. Non una perfezione percepita come fastidiosa o irraggiungibile, ma squisitamente umana come la curiosità che spinge Psiche a tentare di vedere il vero viso del suo Amore. Canova ci piace tanto perché è capace di raccontare teneramente queste storie che raccontano di sentimenti che hanno caratterizzato l’animo degli uomini per secoli, scolpendole nel marmo e rendendole veramente “Eterne”.
Introduzione e conclusione a cura di Beatrice Offidani