La crisi coreana: tra propaganda e realismo politico

La crisi coreana: tra propaganda e realismo politico

Come i fatti stanno dimostrando, la Guerra di Corea formalmente interrotta nel 1953, in realtà non è mai finita. Mai come ora l’escalation militare e politica a cui l’opinione pubblica mondiale sta assistendo, potrebbe portare verso scenari imprevedibili e catastrofici. Riuscire a delineare un quadro generale della situazione non risulta pertanto facile, a causa della presunta irrazionalità strategica del giovane dittatore coreano e dello stile politico quanto mai sfacciato del presidente degli Stati Uniti.

In seguito ad un’attenta interpretazione degli eventi, Giorgio Cuscito, Fabrizio Maronta e Alberto de Sanctis hanno esposto la loro visione dei fatti al convegno organizzato da “Limes” tenutosi al Mercato Centrale di Roma mercoledì 11 ottobre.

Quali sono gli scenari possibili? La guerra è un’opzione così remota? Kim Jong-un è veramente così irrazionale come sembra? Questi sono i principali punti interrogativi le cui risposte aiutano, se non a prevedere, almeno a poter immaginare, le mosse degli attori in gioco. Ciò che è sicuro è la rottura dell’equilibrio tra potenze nella zona, al di là del possibile scoppio di un conflitto armato.

Risulta essere idea diffusa nell’opinione pubblica mondiale, la poca razionalità politica del dittatore nord-coreano, catalogato dai più come “matto” per usare un eufemismo. Senza un’approfondita speculazione sulle ragioni dell’ambizioso progetto nucleare della Corea del Nord, risulterebbe impossibile trovare un motivo valido per sfidare nell’arena militare una superpotenza mondiale come gli Stati Uniti.

Grazie agli argomenti esposti dai relatori del convegno, si fa sempre più forte la convinzione che l’ultimo erede della dinastia dei Kim non sia affatto irrazionale, ma che al contrario sfrutti al meglio le sue risorse. La situazione di perenne tensione a cui ha costretto il suo popolo deriva direttamente dalla natura stessa della dittatura fondata sul culto della personalità. Quindi, per riportare le parole di Giorgio Cuscito, la bomba assume il ruolo di “un’assicurazione sulla vita” per Kim Jong-un. Tuttavia il concetto di “deterrenza nucleare” che ha consentito in molti contesti di mantenere un equilibrio di potenza, non è mai stato messo a dura prova come in questo momento. Si fa sempre più viva l’idea che basti una scintilla per far esplodere la situazione, portando così il mondo verso una nuova guerra dagli effetti quanto mai imprevedibili. Sembra che le cose siano veramente cambiate con la retorica quanto mai diretta del presidente Trump. Se un tempo il gioco politico nordcoreano, improntato sulla riapertura a fase alterne del progetto nucleare, aveva come risultato finale la concessione di aiuti economici e materiali da parte della comunità internazionale, questo modo di intendere la politica estera non funziona più. Il regime nordcoreano ha come unico alleato la Cina, la quale da un lato non intende perdere il controllo indiretto sulla zona settentrionale della penisola coreana ma dall’altro lato mal sopporta le sempre più frequenti dimostrazioni di forza dell’establishment politico dell’alleato. La fluidità della situazione palesatasi negli ultimi tempi rischia seriamente di alterare la “balance of power” dell’Asia-pacifico e la mancanza di punti di riferimento per la Repubblica popolare del Nord ha, come dimostrano i fatti, l’unico effetto di accentuare il protagonismo del suo leader.

La polarizzazione delle linee politiche dovuta alla retorica e alla pratica aggressiva di ambo le parti, non può far altro che portare l’apparato politico nordcoreano ad intensificare i test nucleari così da innescare un effetto domino che inevitabilmente porterà alla nuclearizzazione della regione Asia-pacifico.

Attualmente una soluzione diplomatica non sembra percorribile, anche se la più auspicabile. La parti in gioco dovrebbero trarre qualche lezione dalla storia recente, soprattutto facendo riferimento alle dinamiche, anche psicologiche, di sopravvivenza dei regimi dittatoriali. Da un lato Kim Jong-un sa per certo che la sua stessa sopravvivenza fisica e politica coincide con quella del regime dinastico inaugurato da suo nonno Kim Il-Sung. Dall’altro lato le grandi potenze (Usa in primis), dovrebbero ben conoscere i limiti di una politica di potenza e aggressiva proprio alla luce della concezione che i regimi autoritari hanno della pratica del governo.

Pertanto un accordo, che congeli la situazione e soddisfi gli interessi di ambo le parti (la sicurezza da pericoli esterni nel caso coreano e il mantenimento di un certo controllo sul progetto militare di Kim Jong-un da parte degli Stati Uniti), può essere raggiunto soltanto attraverso canali diplomatici. Anche perché, tutto sommato, la guerra non gioverebbe a nessuno.

 

 

A cura di Tommaso Carbone

 

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