La curva dell’elefante spiega Trump e Xi Jinping

La curva dell’elefante spiega Trump e Xi Jinping

È possibile trovare una chiave di lettura univoca che permette di spiegare le divergenti posizioni assunte tra il neo-eletto presidente americano Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping sulla globalizzazione? La risposta breve è sì, e neanche tanto paradossalmente. Questa almeno è la valutazione di più ampio respiro che suggerisce la “curva dell’elefante”, rappresentazione grafica formulata dall’economista serbo-americano Branko Milanovic, Presidential Professor della City University of New York, cui ho avuto il piacere di ascoltare ad una recente conferenza. Il complesso lavoro statistico di Milanovic, sintetizzato appunto dalla curva che ricorda la sagoma di un elefante, chiarisce come la globalizzazione, intesa come la trasformazione industriale e finanziaria del commercio su scala mondiale, abbia fondamentalmente alterato i parametri della distribuzione del reddito globale negli ultimi trent’anni in quanto forza motrice dei paesi in via di sviluppo.

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In prima analisi, è osservabile che i paesi ad aver tratto il maggiore beneficio dalla globalizzazione, in termini di crescita reale del reddito, sono stati i paesi tra il 20 e il 55 percento della distribuzione mondiale, ovvero: Cina, India, Brasile insieme alle altre così dette “Tigri Asiatiche”. Il minor prezzo della mano d’opera nei paesi asiatici ha assicurato maggiore competitività e produttività per le imprese occidentali, le quali, in un secondo tempo, si sono consolidate con l’espansione di una nuova classe di consumatori all’interno dei mercati emergenti. Solo in Cina, come ha fatto notare Xi Jinping alla conferenza del World Economic Forum a Davos, milioni di lavoratori sono usciti dalla povertà assoluta. La globalizzazione è stata, in altre parole, una formula magica che non solo ha sollevato gran parte della popolazione dalla soglia di povertà ma che ha anche contribuito alla crescita esponenziale di una classe media-alta asiatica la quale ha visto raddoppiare se non quadruplicare il loro reddito medio. Seppure non un paese asiatico, anche il Brasile ha conosciuto durante la presidenza di Lula una crescita economica di stampo simile, riuscendo inoltre ad introdurre programmi sociali modernizzati e investimenti pubblici che hanno ridotto il livello medio di inuguaglianza nazionale.

I maggiori perdenti della globalizzazione invece si dimostrano di essere quelle classi medie-alte dei paesi occidentali. Anche se i paesi dell’OCSE sono cresciuti in termini reali di Pil, i redditi medi delle classi medie sono rimasti invariati se non calati. Si percepisce anche dalla curva che è aumentato a dismisura il divario di reddito tra classe media e quel top 1 % di élite più ricchi, di cui Trump ne fa paradossalmente parte. Nel caso degli Stati Uniti questa divergenza è stata più acuta che in Europa, seppure in Europa si aggiungono dei problemi inter-istituzionali dell’Unione Europea che limitano i margini di azione dei governi nel poter adeguatamente reagire agli alti tassi di disoccupazione, la deflazione e ai bassi livelli di investimenti nelle infrastrutture pubbliche.

Il quadro economico esposto da Milanovic, riconosciuto da economisti del calibro di Thomas Piketty, è significativo soprattutto perché aiuta ad interpretare i movimenti anti-globalisti e populisti raffigurati da individui come Trump, apertamente schierati contro i trattati di libero scambio come il TTIP e il TTP. Se non altro, Trump ha galvanizzato con la sua retorica gli elettori della “working-class” che socio-economicamente hanno risentito più gravemente le politiche neoliberiste iniziate da Reagan e Thatcher negli anni 80’ in cui la delocalizzazione era diventata diffusa e la totale libertà di licenziamento era diventata prassi. La maggiore precarietà nei mercati lavorativi americani che ha accompagnato questo processo ha reso stagnanti i redditi di quella classe media emersa con lo stato sociale dopo il New Deal. Seppure i redditi rimanevano immutati ormai da decenni, la percezione di benessere economico veniva ‘anestetizzata’ dai prestiti “facili” concessi dalle banche facendo apparire che chiunque poteva permettersi di acquistare una casa. Questo fino a che lo scoppio della bolla finanziaria del 2008 ha portato all’abbassamento dei salari e all’indebitamento massiccio dei cittadini. Proprio per rimarcare la perdita del lavoro industriale e l’impoverimento della classe media, Trump ha fatto dei “jobs” (cioè dell’impiego) il suo cavallo di battaglia durante la campagna elettorale. Con il fallimento degli ideali delle élite cosmopolite Trump promette di ridare fiducia ai lavoratori dell’economia ‘reale’ tramite il suo piano di investimenti infrastrutturali, anche se è prematuro prognosticare quanto e come aiuterà “Main Street”. Domanda ancora più incerta rimane come Trump pensi al livello internazionale di tagliarsi fuori dal commercio mondiale avanzando politiche protezioniste nei confronti di un paese come la Cina, il primo partner per l’import degli Stati Uniti.

Agli antipodi della posizione esposta da Trump, si spiega perché i paesi emergenti asiatici difendono l’esperienza della globalizzazione. Il presidente cinese Xi-Jinping, a Davos, ha voluto apertamente affermare la visione di “sostenere il sistema commerciale internazionale e partecipare alla governance economica globale”, come scrive anche nel suo libro The Governance of China. L’aumento di capitale esponenziale, l’espansione tecnologica, il rialzo dell’educazione e lo sviluppo economico inedito nella storia hanno portato la Cina a ritagliarsi un ruolo centrale nel commercio mondiale e ad avere una rinnovata importanza geopolitica, condizione che Xi ambisce a mantenere. Questo successo si deve alla continuità della flessibilità e pragmatismo della governance cinese, avviata con le riforme di modernizzazione di Deng Xiaoping. L’era di Xi Jinping prosegue una strategia mirata alla cooperazione e allo sviluppo commerciale interno e internazionale di lungo termine attraverso progetti come la “Belt and Road Initiative”, schemi di agevolazioni finanziarie e investimenti infrastrutturali (c.d greenfield investments) che contribuiscono a protrarre le attività straniere sul territorio e a creare nuove forme di integrazioni regionali. Lanciando un chiaro messaggio a Trump, il presidente cinese ha detto che il protezionismo “è come chiudersi in una stanza buia. Si tiene fuori il vento e la pioggia, ma anche l’aria”. “Nessuno vincerebbe una guerra commerciale”, ha aggiunto, evidenziando come tale scenario avrebbe effetti deleteri per l’economia globale—che negli ultimi 7 anni ha registrato il più basso livello di crescita. Ciononostante, anche la Cina non nasconde che bisogna correggere il modello perché sempre più insostenibile e diseguale. Infatti, Xi ha sottolineato che servono nuove industrie e nuovi modelli di business innovativi per confrontare la diminuzione della crescita globale che ha avuto risvolti negativi sul mercato del lavoro internazionale.

Il tema dell’inuguaglianza globale nonostante sia rimasto ai margini degli studi accademici, come denunciato da Milanovic, e delle preoccupazioni nazionali (in particolare dei partiti di sinistra) , sorge oggi come un aspetto centrale del dibattito internazionale poiché il suo approfondimento su basi empiriche, come dimostra la curva dell’elefante, ci consente di razionalizzare gli avvenimenti della politica. È importante rilanciare una seria riflessione sull’inuguaglianza creata dai meandri della globalizzazione, ma è altresì necessario riformare in fretta il sistema di governance economico mondiale in direzione di un modello di crescita bilanciato anche per il mondo sviluppato. La grande perplessità di Xi Jinping e il resto della comunità internazionale economica rimane se i populisti al potere, frutto dell’incapacità dei governi neoliberisti a gestire con delicatezza la fase di transizione della globalizzazione, riusciranno effettivamente ad impegnarsi in una ridistribuzione dei redditi per appiattire la curva dell’elefante.

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