La diplomazia americana in caduta libera: una leadership compromessa

La diplomazia americana in caduta libera: una leadership compromessa

Il 2017 è stato un anno da bollettino rosso per l’apparato diplomatico americano, subendo uno dei più notevoli (e preoccupanti) ridimensionamenti della sua storia. Da quando si è insediato nella Casa Bianca Donald Trump, la sua amministrazione si è posta l’obiettivo di avviare una “ristrutturazione” del Department of State — il ministero degli affari esteri statunitense, nonché organo dedicato alla formazione dei diplomatici di carriera. Il capo della diplomazia americana, Rex Tillerson, ha dichiarato un taglio del budget del 31% al Department of State per l’anno fiscale del 2018 (appoggiato dal Presidente), in nome “dell’efficienza”. Sebbene il Congresso non abbia ancora approvato definitivamente il piano di riorganizzazione (una procedura che potrebbe ancora impiegare tempo), la volontà dell’amministrazione Trump di seguire tale linea ha provocato trambusto all’interno del dipartimento.

Già lo scorso gennaio hanno dato le dimissioni per protesta collettiva 100 Senior Foreign Secretary Officers—l’equivalente di ambasciatori di carriera o generali a 5 stelle—perdendo cosi 60% dei più alti funzionari diplomatici. Inoltre, sono calati da 39 a 19 i funzionari equivalenti a generali 3 o 4 stelle, mentre i 431 consiglieri a “2 stelle” sono diminuiti del 18%. In totale il personale di 25.000 dipendenti è stato ridotto dell’8%. Le cifre parlano chiaro: il quadro è allarmante. Scrivendo sul New York Times questa settimana, Nicholas Burns e Ryan C. Crocker, che hanno lavorato come ambasciatori nelle amministrazioni repubblicana e democratica, si sono lamentati che a causa di decisioni sbagliate da parte dell’amministrazione Trump, “stiamo assistendo alla partenza più significativa dei talenti diplomatici da generazioni “, insieme a “un calo di morale tra coloro che rimangono indietro “.

Non solo si sta verificando una riduzione del personale diplomatico più esperto, ma il piano di Rex Tillerson di voler “snellire” il dipartimento vorrebbe inoltre bloccare le assunzioni (hire freeze). L’impatto è dunque duplice. Lo svuotamento intenzionale dei gradi diplomatici più alti non è accompagnato da alcuna procedura di sostituzione immediata di quei funzionari che compongono la colonna portante della politica estera americana. Dunque, alcune cariche importanti si trovano tutt’ora vacanti (e in attesa dell’approvazione del Senato) tra cui quella di assistente segretario di stato per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico—responsabile per affrontare la minaccia nucleare della Corea del Nord.

Tutto ciò si sta verificando in un quadro di ulteriore notevole aumento delle spese militari. Non è un segreto che gli Stati Uniti badano alle spese militari più che a quelle diplomatiche. Nel 2016, il budget concedeva 600 miliardi agli organi militari del Pentagono e solo 55 miliardi al Department of State. Tuttavia, una mossa intenzionata a ridurre le capacità diplomatiche di un terzo, e al contempo aumentare il budget militare (che Trump ha annunciato come “uno dei più grandi della storia americana”), è una mossa che accentrerebbe un potere sproporzionato nelle mani dei generali e delle agenzie del Pentagono—sotto il diretto controllo del Presidente. In tale senso, comporterebbe uno sbilanciamento pericoloso tra i due apparati istituzionali, che dovrebbero invece dialogare maggiormente ed essere considerati paritariamente importanti. Come commentato da H.R. McMaster, un National Security Advisor, anche un realista neoconservatore come Ronald Reagan credeva nell’importanza della diplomazia utilizzata insieme al “hard power”: “Il presidente Reagan capì che la diplomazia e la forza militare erano entrambi strumenti importanti e ugualmente vitali del potere nazionale”. Donald Trump invece non solo non sembra capire l’utilità della diplomazia, ma sembra voler consciamente decimarla, favorendo forza a scapito di negoziazione e dialogo.

 

E’ difficile trovare una spiegazione coerente o pragmatica per il previsto taglio della spesa a un organo così vitale per la sua politica estera. Se non altro, la riforma del budget riflette una volontà isolazionista di Donald Trump che si congiunge con una politica “reaganiana” perversa. Il portavoce della camera Paul Ryan ha detto che il nuovo budget è stato fatto per: “ridurre le dimensioni del governo, far crescere la nostra economia, proteggere i nostri confini e garantire che le nostre truppe abbiano gli strumenti necessari per completare le loro missioni”. Questo è per dire che il cambiamento dell’assetto diplomatico, voluto da Trump e gran parte dei repubblicani, è sintomatico di una ristrutturazione più ampia delle agenzie e politiche governative americane (tra cui l’Obamacare) motivata da una ideologia anti-statale e guidata dalla logica del ‘business’ capitalista. Cambiare la rotta intrapresa dall’amministrazione non sarà facile, specialmente dati gli ampi numeri di deputati e senatori di cui godono i Repubblicani in questa legislatura.

La linea adottata da Trump è a dir poco miope, contro-producente e rischia di minare la leadership globale americana. In una lettera a Tillerson a novembre, i senatori John McCain (Repubblicano) e Jeanne Shaheen (Democratica) hanno avvertito che “il potere diplomatico americano si sta indebolendo internamente mentre complesse crisi globali stanno crescendo esternamente”. Stroncando la diplomazia si vanifica il soft power americano, che dal dopo-guerra in poi tempo è stato la chiave del suo successo nel diventare l’unica ed autentica potenza mondiale. Per quanto gli Stati Uniti tutt’oggi sovrastano di gran lunga il potere militare effettivo dei suoi “rivali”, gli USA senza alleati e senza dimostrarsi degli interlocutori credibili ed efficaci nella gestione di problematiche internazionali rischiano di essere comunque più deboli ed esposti che mai.

 

Per comprendere meglio l’importanza della sapienza diplomatica per la leadership americana sarebbe bene citare alcuni episodi storici. Ad esempio il piano Marshall, che è stata una politica straordinariamente lungimirante e innovativa, nonché attuata con grande abilità. Ha dato il via alla ripresa economica europea, rifinanziando gli ex avversari come la Germania e l’Italia, e facendo di loro alleati economici strategici.  Si guardi anche la creazione della NATO, che ha consentito agli Stati Uniti di mantenere una penetrazione ed influenza militare geo-strategica nel mediterraneo e nell’Europa dell’Est, agendo da “ombrello di sicurezza” contro l’Unione Sovietica.

 

Inoltre, gli Stati Uniti sono stati artefici della moderna governance economica mondiale attraverso gli accordi di Bretton Woods, e la creazione del GATT e il WTO. La gestione dell’economia mondiale non è stata inizialmente perfetta, ma gli accordi istituzionali implementati (e in seguito evoluti) dopo la seconda guerra mondiale sotto la leadership statunitense hanno svolto un ruolo fondamentale nel ridurre gli ostacoli agli scambi e agli investimenti e alimentare un lungo periodo di crescita economica.

La diplomazia bilaterale americana può anche essere ringraziata per l’espansione strategica degli USA in Cina. La visita di Nixon in Cina nel 1972, è stato un evento storico che ha posto fine a 25 anni di ostracismo statunitense e normalizzato le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Il rinnovato rapporto ha gettato le basi per la successiva cooperazione sino-americana che diventerà la locomotiva della crescita economica mondiale. Ad oggi, la Cina è diventata una fonte essenziale per le importazioni americane nonché il maggiore detentore straniero di titoli di stato americani. Tuttavia, con l’amministrazione Trump, i rapporti tra i paesi sono peggiorati. Xi Jinping e Trump sono agli antipodi della politica economica globale, come testimoniato dalla conferenza di Davos lo scorso gennaio.

Gli Stati Uniti hanno anche svolto un ruolo fondamentale nel processo di riunificazione tedesca. Per pragmatismo politico e interesse economico gli Stati Uniti dichiararono apertamente il proprio sostegno all’unità tedesca dal maggio 1989, il che conferì al cancelliere della Germania ovest Kohl il sostegno a concentrarsi sulla riunificazione di fronte all’opposizione interna e straniera. Gli Stati Uniti hanno anche facilitato i vari negoziati attraverso i quali l’URSS, la Francia e l’Inghilterra hanno finalmente approvato la riunificazione.

In ultimo luogo si potrebbe citare anche l’accordo di Dayton del 1995 (tutt’oggi in vigore), il quale, attraverso la forte mediazione americana, ha posto fine alla guerra sanguinosa in Bosnia-Erzegovina.

È importante sottolineare come per diventare una grande potenza sia necessaria una lucida costruzione e un efficace mantenimento di sistemi di alleanze. Nell’arco di mezzo secolo, e soprattutto dopo il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno potuto imporsi come leader indiscussi di quell’ideologia neoliberale e quel modello di democrazia liberale affermato da Francis Fukuyama. Architettando istituzioni militari ed economiche sovranazionali a loro misura, gli USA hanno avuto (e tutt’oggi hanno) in mano le redini dell’economia mondiale. Tuttavia, i successi diplomatici americani non avrebbero avuto gli stessi risultati se non fosse stato anche per il potere materiale e gli arsenali nucleari a sua disposizione. Come osservò una volta l’ambasciatore George Kennan: “non hai idea di quanto sia più facile e piacevole fare diplomazia quando sai di essere sostenuto silenziosamente da una forza militare”.

 

L’utilizzo del soft power, il quale è stato centrale nella politica estera americana, è in netto contrasto con la sua politica estera di oggi, dove la risposta preferita a molti problemi tende ad essere una qualche forma di “azione cinetica” sotto forma di attacchi di droni, operazioni speciali, bombardamenti su larga scala o  invasioni a tutto campo. L’utilizzo della forza militare senza una pianificazione politica seria e guidata da esperti negoziatori, come in Iraq, Afghanistan e in Libia, ha avuto risultati fallimentari, creando inoltre terreno fertile per l’espansione del fondamentalismo islamico.

La politica estera di Trump sembra accentuare una politica di scontro piuttosto che di mediazione e di risoluzione pacifica delle questioni internazionali. Guardando i casi più attuali, l’amministrazione Trump ha annunciato di spostare l’ambasciata da Tel-Aviv a Gerusalemme, violando in tal modo gli accordi di pace delle Nazioni Unite in vigore dal 1949, alimentando tensioni e caos tra palestinesi e israeliani. In Iran, l’accordo firmato con Teheran nel 2015 da Barack Obama e le principali potenze mondiali, è anch’esso messo in bilico da Trump. In una lettera aperta al New York Times, Tillerson conclude sottolineando la necessità di “punire” l’Iran per le violazioni degli impegni sui missili balistici e per le attività di destabilizzazione nella regione. Con la Corea del Nord, il presidente americano sta giocando un gioco pericoloso. L’ultimo test sui missili balistici intercontinentali di Kim Jong Un ha ricordato nuovamente agli Stati Uniti che nessuna regione del mondo ha più bisogno di un’abile diplomazia americana per prevenire un’ulteriore “escalation”.

Anche l’Europa sembra voltare le spalle agli Stati Uniti. A dicembre l’UE ha annunciato la creazione di una difesa comune Europea. L’iniziativa politica, ben lontana da essere realizzata completamente, contrasterebbe direttamente il presupposto della NATO riducendo così l’influenza militare statunitense nel continente. Trump ha anche annunciato il ritiro del suo paese dagli accordi climatici di Parigi, firmati dal suo predecessore, un’altra mossa che di sicuro non contribuisce a rendere l’immagine di un’America leader.

Mentre Washington affossa la diplomazia, continuano a profilarsi delle sfide internazionali che richiederebbero invece un loro protagonismo negoziale. In Siria, l’intervento militare russo calibrato con una giusta dose di astuzia diplomatica ha impedito il capovolgimento del regime al-Assad, voluto invece dagli USA. L’America ha dovuto concedere di fatto una vittoria, seppur tacita, in Medio Oriente ad un suo diretto rivale. Anche le ambizioni cinesi stanno minando la leadership economica e geopolitica (soprattutto nel Pacifico) degli Stati Uniti. Ritirandosi dagli accordi di libero scambio e attuando politiche protezioniste, l’America si ritroverà sempre più isolata, mentre darebbe alla Cina ulteriore influenza nella gestione della governance economica globale.

La diatriba interna all’amministrazione Trump è quindi un aspetto di rilevanza globale. Il peso politico delle decisioni in materia di politica estera degli Stati Uniti hanno ripercussioni che gravano sull’intero scenario internazionale. Portando avanti politiche spesso incoerenti e escludendo sistematicamente gli ufficiali di carriera dal processo decisionale, l’amministrazione Trump sta indebolendo la diplomazia degli Stati Uniti e mettendo a repentaglio il suo ruolo di leadership.

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