Una celebre frase di Beccaria recita: “Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che dà un forte ma passeggero movimento”. Cosa c’entra tutto ciò col bullismo? Che valenza ha un principio ottocentesco verso un problema apparentemente odierno?
In realtà il passo è breve. Recentemente vi è stato un caso di una ragazzina di Pordenone che ha tentato il suicidio e, nella lettera d’addio, ha eloquentemente “ringraziato” i compagni di classe per l’atteggiamento tenuto. È possibile che nessuno si fosse accorto di niente prima? Probabilmente si, ma evidentemente non vi era mai stato un episodio grave al punto da richiedere provvedimenti. Ed è proprio qui il fulcro della questione: sicuramente devono esservi stati molti singoli attacchi, vigliacchi e silenziosi. Questi risultano invisibili, o almeno è più comodo classificarli come tali, tanto che la loro stessa denominazione è un insulto alla loro reale portata: “scherzi”. Ma uno scherzo nella sua accezione più genuina mira a produrre ilarità, non spingere al suicidio. Ed è un atto di malafede attribuire la colpa al soggetto bersagliato. Qui parliamo di un qualcosa di reiterato, volontario e distruttivo che porta a colpire proprio quella sensibilità che era la base del pensiero di Beccaria.
Forse allora il termine è un altro, forse dovremmo parlare di malignità, perché di questo si tratta. Se di recente il fenomeno fa scalpore ciò non toglie che sia sempre esistito senza che mai si provasse ad arginarlo. Questo è frutto di una cultura malata che lo circonda: chi ne è vittima viene schiacciato in un meccanismo sociale che porta a vergognarsi di denunciare le angherie subite, mentre chi non ne è direttamente toccato preferisce “vivere nascosto” come se la cosa non lo riguardasse. Nelle scuole la situazione diventa paradossale: si è portati in astratto a demonizzare il bullismo salvo poi evitare di affrontarlo quando palese. È un menefreghismo ipocrita, che porta ai risultati che vediamo perché tutti lo permettono e perché i docenti preferiscono lasciare che una personalità venga distrutta piuttosto che convocare un consiglio straordinario per risolvere la questione.
È indubbio che certi comportamenti siano più suscettibili di verificarsi a una certa età, ma questa non è e non può costituire una scusante per giustificare il male inferto ad altri per puro divertimento. Spesso vi è il luogo comune del bullo come soggetto proveniente da famiglie “complicate”. È un errore grave, perché si finisce per garantire una sottile via di fuga mai espressa a parole, una giustificazione implicita che fa si che questo soggetto vada più aiutato, quando molto spesso alla base vi è un problema educativo. E in mancanza di educazione, vi è crudeltà gratuita.
A cura di Edoardo Angelini