La natura umana è fondamentalmente egoistica, e competitiva. È un dato di fatto, siamo naturalmente guidati dall’istinto di sopravvivenza e conservazione, e perciò tendiamo naturalmente a volere per noi il più possibile, anche a scapito dell’altro. Homo homini lupus diceva Plauto duemilatrecento anni fa. Al contrario Aristotele speculava: “ E’ innegabile che tendiamo naturalmente ad aggregarci, non siamo lupi ma politikòn zôon ( animali sociali)”. Hobbes non era d’accordo e teorizzava nel suo “Leviatano” che le società nascono soltanto per evitare l’autodistruzione della specie: siamo lupi che si fingono agnelli. Tuttavia, per natura o per compromesso, le società esistono e permettono un’allocazione efficiente delle risorse, almeno secondo il principio Smithiano della mano invisibile. In qualsiasi sistema si giunge naturalmente ad una distribuzione ottimale delle risorse, in cui non è possibile migliorare la condizione di un soggetto senza, allo stesso tempo, peggiorare quella di qualcun altro. Nel mondo degli economisti classici l’egoismo dell’uomo era, dopotutto, una forza positiva che permetteva di raggiungere il benessere collettivo, senza scannarsi l’uno con l’altro. Nascono così le teorie dei giochi cooperativi, e la stabilità sembra possibile.
Questo è stato il dogma per tre secoli finché, nella prima metà del ‘900 si sono succeduti due eventi che hanno fatto crollare “qualche” certezza: la grande crisi del 1929 e lo scoppio di due guerre mondiali. Era chiaro che c’era una falla nelle teorie di Pareto: la distribuzione del reddito dove pochi avevano cento e tanti avevano zero ancora costituiva concettualmente un ottimo, ma aveva contribuito al crollo del sistema economico mondiale; lo scacchiere geopolitico internazionale sembrava piuttosto un gioco competitivo, dove ognuno cercava di accaparrarsi il più possibile. La natura basata sull’ egoismo dell’uomo sembrava aver avuto la meglio e neanche il canone Smithiano prospettava una soluzione. Si era realizzata la guerra di tutti contro tutti di Hobbesiana memoria, il mondo era fatto di vincitori e vinti e lo squilibrio sembrava la regola.
E poi il punto di svolta. Anno 1950: il genio matematico statunitense John Nash ottiene il suo dottorato a Princeton con una tesi di ventisette pagine in cui dimostra matematicamente che l’equilibrio esiste, anche in un mondo di interazioni strategiche non cooperative. Non è solo un concetto filosofico ideale o un’utopia irraggiungibile. No, l’equilibrio è un fatto. E’ scienza, è matematica, non lascia spazio a dubbi.
Ui (s1o, s2o, …, sie, …, sNo) > Ui (s1o, s2o, …, sio, …, sNo)
Dove U, l’utilità collettiva, è costantemente maggiore se gli individui scelgono di non perseguire tutti la stessa strategia, so, la strategia ottimale, deviando su se, la propria strategia dominante. Questo vuol dire che possiamo trovare sempre un sistema che ci permetta di raggiungere un buon grado di soddisfazione, senza intaccare il benessere dell’altro. Usando il celebre esempio cinematografico: un gruppo di ragazzi al bar raggiunge l’equilibrio soltanto quando ciascun componente punta una ragazza diversa, anche se bruttina, piuttosto che se ci provassero tutti con la bella di turno. Uno scenario in cui essere tutti vincitori diventa possibile.
Quelle ventisette pagine di tesi gli sono valse il Nobel per l’economia nel 1994 oltre ad aver contribuito a cambiare la traiettoria comportamentale del mondo occidentale, aiutando USA e URSS ad uscire dalla guerra fredda.
John Nash non era un romantico, non contava sul senso di giustizia sociale o sulla cooperazione, era un matematico che si appellava alla razionalità che ci distingue dagli altri animali, né lupo, né animale sociale, ma homo sapiens.
Se lasciamo perdere il desiderio ideale di raggiungere l’ottimo, se ci affidiamo soltanto alla nostra razionalità collettiva e accettiamo qualche compromesso, allora l’equilibrio esisterà, basta soltanto trovare la propria strategia dominante.
Ammesso che, naturalmente, tutti i giocatori siano davvero razionali!