“U sole, ind’ellu un luce un scalda.” che tradotto dal corso significa il sole quando non brilla non scalda. E che sia intonato da due comari sulla facciata di una casa a stento intonacata, o da due cacciatori delusi da uno scarno bottino, essa conserva sempre il medesimo sapore amaro. Perché in fondo il sole scalda solo quando è considerato tale e la Corsica vive solo in riconoscimento dei suoi particolarismi indigeni; almeno questo è quello che si percepisce da Bastia a Bonifacio. Un’isola selvaggia, di spiagge rocciose, scogliere a strapiombo, vette che superano i 1000 metri, stagni, paludi. Uno zoccolo che si staglia tra le bocche di Bonifacio e la costa azzurra, una terra sul quale destino sembra essere incisa perentoria la parola colonizzazione. Destino infausto iniziato nell’età repubblicana romana con l’occupazione della regione da parte delle legioni del console Lucio Scipione e la conseguente assimilazione alla provincia di Sardegna. Considerata lande sperduta e poco civilizzata, fu sede dell’esilio del filosofo Seneca che pur apprezzandone le qualità geografiche e naturali ne criticava lo scarso livello di civilizzazione imputabile agli autoctoni. D’altronde, una delle versioni più conclamate, dell’effettiva etimologia della parola Corsica è quella che la associa alla commistione dei termini Cor (Petto) e Sica (coltello) ad indicare il tratto che meglio contraddistingueva la popolazione corsa, un surrogato di forte tempera, violenza e tradizione, sfumature endemiche che accompagneranno marcatamente quello che sarebbe stato il tentativo di evoluzione e civilizzazione di una terra mai del tutto addomesticata. La parentesi latina, l’influenza aragonese la dominazione genovese che fatalmente gli succedette contribuirono a cristallizzare quell’algido pensiero di una cattività corsa destinata a perdurare nel tempo. Ma il sole riscalda solo se brilla, e nell’esaltazione delle tradizioni e del particolarismo che i corsi individuarono l’unico antidoto a un depennamento permanente del loro etimo e delle loro origini. Da ciò deriva la fede quasi ossessiva, lungi dall’essere bigotta per ignoranza è resa così stretta e dogmatica per memoria. Santa Giulia e Santa Devota, trascendono dalla loro aurea di santità per compararsi e identificarsi con le latenti sofferenze dell’isola imbracciando non solo la causa dell’umanità, avvalsa dalla chiesa, ma anche perorando con la loro vita la rivalsa del popolo del coltello sul petto. E se è vero che la colonizzazione è elemento intrinseco della storia corsa, non si può dire che l’indipendenza sia un fattore che cozza con essa. Perché, seppur per breve tempo, la Corsica l’indipendenza la ottenne. Il XVIII secolo coincide con la scoppio di una rivolta messa in atto dal nobiltà locale contro il dominio della repubblica di Genova; rivolta che portò allo sviluppo di apparato statale autonomo, di una costituzione propria, di una bandiera e di un inno. Sotto la guida di Pascal (Pasquale) Paoli. Sottolineo l’inno e la bandiera poiché è emblematico che ancor prima di sviluppare uno stato nella sua definizione principe, l’obiettivo della appena nato regno corso era quello di sclerotizzare per sempre il suo popolo sotto l’effige di un vessillo e tra gli spartiti di un canto apotropaico verso le barbare ingerenze. Le scelte della bandiera e dell’inno, in quanto ragionate, si rivelano essere tutt’altro che banali. Tutt’ora se vi recate in Corsica in una giornata abbastanza ventosa, vedrete ondeggiare la cosiddetta Bandera Testo Moru; un drappo bianco con una testa di moro sbendata che guarda verso l’orizzonte, come a simboleggiare l’auspicata liberazione. Al quasi sacrale atto dello sbendaggio, si correla la scelta di un inno, il Dio vi salvi Regina, che esemplifichi il tradizionalismo intriso nel credo e nelle usanze. La parentesi dell’indipendeza fu tanto breve quanto funzionale ad esemplificare perentoriamente un’identità che era in procinto di essere dimenticata. La Corsica, fallito il progetto di autonomia, fu venduta dai genovesi al regno di Francia e con la trionfale ascesa di Napoleone, che ironia della sorte era originario della stessa Ajaccio, fu inclusa nell’impero di Francia. Il processo di inclusione e la conseguente percezione di vedere un aiaccino come leader d’Europa generò un appagamento del popolo corso accompagnato dall’assopimento della verve indipendentista. Ne seguì un periodo di relativa stasi, che perdurò fino agli anni ’50 del novecento. A seguito di una demografia e di un’economia che raggiunsero i minimi storici insorse un discreto malcontento catalizzato da due eventi: la caduta dell’impero coloniale francese e il conseguente arrivo dei rimpatriati degli ormai vecchi possedimenti africani. Ciò provocò fatalmente una volontà di protezione della propria identità, integralista a tal punto da non voler essere assimilata e coniugata con i particolarismi provenienti dalle ex colonie del Nordafrica. La volontà di rivendicare quella che era un’auspicata autonomia corsa nei confronti delle popolazioni africane portò transitivamente ad una parallela rivendicazione di un’autonomia rispetto anche all’esagono francese. Tuttavia a tale rivendicazione non corrispose una risposta dal governo francese e per evitare di rimanere in una situazione stimata statica, L’azione regionalista Corsa (ARC) optò per scegliere mezzi di azioni più radicali. Ne seguì un processo di azioni che sfociarono nel sangue e nella violenza. Dalla simbolica occupazione della cava d’ Aleria da parte di una ventina di indipendentisti corsi guidati da Edmond Simeoni, il grande disappunto nei confronti di una nazione che ignorasse i sentimenti autonomisti confluì nell’istituzione del Fronte di liberazione nazionale della Corsica (FLNC). Ma se da una parte, impregnare di sangue il proprio credo patriottico, contribuisce ad una diffusione mediatica di esso d’altra parte lo associa sacrosantamente alla sua peggiore connotazione. E’ così sentenziato il passaggio dall’indole nazionalista a un integralista dottrina facinorosa culminata con l’assassinio del prefetto Erignac. La violenza non è arma di battaglia, tanto paradossale da dire, quanto difficile da assimilare. Tale comprensione, tardiva ma sincera, portò allo spostamento della questione su un’ottica politica, coinciso con la nascita di molteplici partiti nazionalista corsi. In particolare le ultime elezioni amministrative certificano come leader nella regione il partito Femu a Corsica, assegnatario di tre dei quattro seggi all’assemblea nazionale. Tale risultato, per quanto sorprendente va inteso sia dalla faccia della medaglia che ci appare, sia da quella celata e offuscata. Perché se è vero che la Corsica dimostra una volontà di autonomia d’altra parte quest’ultima rimane vincolata ad un rapporto di “collaborazione” con la Francia. Il sole quando non brilla non scalda, e la Corsica non riesce a brillare da sola, almeno questo è quello che si percepisce da Bonifacio a Bastia. E così pur rifugiandosi nei particolarismi, il popolo corso sembra aver scelto tacitamente di riporre il coltello sul petto nel fodero, guardando il Via Stella in lingua corsa, con una foto di santa Giulia appesa all’armadio. Alla finestra, la Testa di Moro, avvolta nel drappo tricolore, che guarda il futuro sognando la notte sonni al mattino disillusi..
A cura di Matteo Mariani