Si è concluso tutto con il suicidio di un ragazzo di diciott’anni, indicato dalla polizia come l’unico autore della strage avvenuta venerdì a Monaco di Baviera e che ha provocato dieci morti (compreso l’attentatore suicida) e ventisette feriti, fra un McDonald’s ed un centro commerciale a nord della città. All’indomani della sparatoria che ha scosso la Germania e l’Europa intera, ancora a terra dopo il massacro di Nizza del 14 luglio, il timore che l’attacco fosse stato orchestrato da un commando – si parlava di tre uomini armati e di una possibile matrice islamica dell’attentato – ha lasciato spazio alla vista di un cadavere giovane, forse anche troppo giovane.
È immaginabile la sorpresa provata dagli agenti di polizia nel trovarsi davanti un ragazzo che avrebbe potuto avere l’età di uno dei loro figli, essere un loro compagno di scuola, un amico o qualcosa di più. Risulta quasi impossibile credere che la mano macchiata del sangue di così tanti giovani, che consideravano il centro commerciale Olympia come un luogo di ritrovo per passare la serata in compagnia, magari con una birretta in mano e tanta voglia di scherzare, fosse quella di un loro coetaneo.
Il nome diffuso dai media è quello di Ali Sonboly: nato e cresciuto in Germania ma di origine iraniana, vissuto nei quartieri popolari e con alle spalle un duro periodo di terapia, rappresenta tutto quello che le autorità non si aspettavano di trovarsi di fronte. Le indagini escludono un collegamento con l’Isis e con il terrorismo organizzato, mentre emergono particolari sempre più crudi sul passato del ragazzo, vessato dai bulli e desideroso di essere accettato da una popolazione che, evidentemente, non vedeva in lui altro che un “diverso”. La rabbia di Sonboly è emersa a seguito del fallimento dei suoi precedenti tentativi di farsi accettare, al grido di “Sono tedesco, nato in Germania!”. Niente Islam, niente estremismo politico. Solo il desiderio di essere considerato come tutti gli altri, di non essere più “l’iraniano”. È alla sordità di quei bulli che sembra essere rivolto il rumore degli spari esplosi contro le sue vittime innocenti, colpite indirettamente da quell’ isolamento sociale che il ragazzo lamentava.
Ancora una volta è il singolo, il “lupo solitario” a far tremare l’Europa che si scopre nuovamente incapace di far fronte al rischio rappresentato dalla scheggia impazzita nascosta in seno alla popolazione. Il terreno di battaglia si conferma mutato rispetto alla guerra tradizionale o allo stesso terrorismo affrontato sul suolo mediorientale: il combattente irregolare – o, come lo definirebbe Schmitt, il partigiano – si muove nascosto fra la folla, forte dell’odio che prova verso il mondo in quanto ciò che è distinto da lui. Chiunque sia differente dal combattente è il nemico, l’ostacolo da abbattere per guadagnarsi la propria affermazione, in una distorsione perversa che vede come inconciliabili le esistenze del partigiano e di chi gli sta accanto. Si tratta, giunti a questo punto, della “mia” sopravvivenza contro la “tua”, di un “io” contro “gli altri”, senza che vi sia posto per il dialogo, la comprensione e la convivenza. Oltretutto, portando il campo di battaglia fra i negozi, le scuole, le case e le piazze diventa pressoché impossibile affrontare il solitario, dal momento che sarà sempre in vantaggio rispetto ad un apparato di controllo dimostratosi sempre più goffo e lento nel rispondere agli attacchi.
A ciò si aggiunge anche la tipologia di individuo a cui Ali Sonboly apparteneva, ossia un emarginato sociale che finisce con il divenire un prodotto di scarto del sistema economico che tende a ghettizzare chi non può essere impiegato produttivamente. Da qui il suo passato nei quartieri poveri, allontanato dalla città e da quell’insieme di opportunità da cui era automaticamente escluso, senza però che potesse comprenderne il motivo. Questi individui sono i primi a cedere al richiamo della violenza, della pistola, divenendo un rischio per chiunque si trovi sulla loro strada. Sono la carne da macello del terrorismo, la manovalanza di cui può nutrirsi l’Isis come qualsiasi altro gruppo organizzato capace di galvanizzarne lo spirito represso e amareggiato, con la possibilità che siano anche loro stessi a decidere in maniera autonoma di imbracciare l’arma contro un mondo che non li vuole.
L’Europa è ormai satura di questi emarginati sociali e se ne sta rendendo conto nel peggiore dei modi possibili, provando sulla sua stessa pelle la rabbia nascosta nei loro animi. Giacché il rischio è di fatto ineliminabile e nessun Paese può vantare l’eradicazione totale dell’esclusione, è forse giunto il momento che tutti gli Stati europei si preparino a raccordare i centri cittadini alle periferie in cui le speranze di queste persone si infrangono contro la crudezza del mondo circostante. Non siamo obbligati a convivere con il terrorismo: possiamo anche immaginare di poterlo prevenire.
A cura di Riccardo Antonucci