Dopo oltre 2.000 vittime palestinesi ( di cui il 70 % civili secondo fonti ONU) e 67 israeliani, si è arrivati al raggiungimento di una tregua a tempo indeterminato tra Hamas e Israele.
Tuttavia la notizia non può essere accolta con troppo entusiasmo, né dai diretti protagonisti né dalla comunità internazionale, per una serie di distinte ragioni.
Non deve sfuggire, infatti, la fragilità di tale accordo, dovuto anche alla mediazione egiziana niente affatto disinteressata e al dialogo tra USA e Iran, che potrebbe ben presto far ripiombare nel caos la striscia di Gaza.
Inoltre, da un primo bilancio della terza guerra tra Hamas ed Israele, è proprio quest’ultimo ad uscirne sconfitto: il governo di Netanyahu, infatti, è sempre più oggetto di critiche da parte dell’ opposizione per non aver raggiunto gli obiettivi prefissati, ossia non sono stati annientati i tunnel dei “terroristi”.
Di riflesso, la leadership di Hamas ne esce molto rafforzata: appare, difatti, la struttura portante all’ interno del sistemo geopolitico palestinese, riuscendo a resistere alle pressioni israeliane e a strappare qualche beneficio, come dimostra l’allentamento del nemico sionista sulla Striscia e l’ allargamento della zona di pesca a vantaggio del governo di Abu Mazen.
Infine, l’ intera vicenda va analizzata con un più ampio respiro internazionale; collocandosi nel grande scenario della crisi mediorientale che, dopo rivoluzioni civili e primavere arabe, ora vede l’ insorgere dei jihadisti islamici in lotta per l’ ISIS, ossia il grande disegno del califfato con territori che vanno dalla Siria all’ Iraq.
E’ questa l’ ultima minaccia all’ intero assetto globale, oscuro scenario che non ha goduto finora di una decisa presa di posizione da parte dell’Occidente, Stati Uniti in testa, questi ultimi sempre meno capaci di scelte davvero strategiche.
Ma la storia ha sempre mostrato scenari imprevedibili quando a regnare sulle controversie internazionali è una preoccupante incapacità di agire.
Posted inPolitica estera