In data 30 marzo, il Parlamento ungherese ha attribuito ‘pieni poteri’ al primo ministro Viktor Orban, ufficialmente per combattere meglio la pandemia di Covid-19.
La legge di emergenza è passata nel primo pomeriggio allo Orszaghaz, il Parlamento ungherese appunto, con 137 voti a favore e 53 contrari. Hanno votato a favore tutti i parlamentari di Fidesz (il partito a maggioranza sovranista guidato da Orban) e alcuni deputati di estrema destra.
Grazie all’istituto dei ‘pieni poteri’, Orban potrà d’ora in poi governare per decreti, chiudere e riaprire il Parlamento a sua discrezione, cambiare o sospendere leggi in vigore, rinviare o cancellare ogni elezione. Il tutto per un tempo indeterminato dal momento che solo al premier in persona spetterà decidere quando lo stato d’emergenza avrà fine. A ciò si aggiunge una pericolosa limitazione alla libertà di stampa, in quanto, ai termini della legge, chi verrà accusato dall’esecutivo di diffondere fake news potrà essere condannato anche a otto anni di prigione. Tradotto informalmente: chi criticherà la gestione dell’emergenza sanitaria o il disastroso stato della sanità pubblica ungherese vedrà spalancarsi le porte del carcere.
La legge approvata dal Parlamento ungherese ha sollevato le critiche feroci delle opposizioni interne e degli osservatori dell’Unione Europea, dalla quale l’Ungheria ottiene ogni anno aiuti vitali per la sua crescita economica nonostante la recidività ad attentare alla rule of law comunitaria.
Il colpo di mano di Orban è drammaticamente preoccupante, essendo in totale disarmonia con lo Stato di diritto europeo e con ogni precetto democratico. Preoccupante sì, ma non sorprendente se si realizza una cronistoria degli ultimi anni di governo Orban. Da quando Orban è salito al potere, nel 2010, con il suo partito, ha lentamente svuotato la democrazia, mostrando grande astuzia nel farlo progressivamente, senza colpi di mano clamorosi (fino al 30 marzo). In questo momento, in Ungheria, resiste qualche minoranza critica intellettuale, un minimo di libertà di stampa e la possibilità di fare opposizione in Parlamento benché si tratti quasi di un’opposizione simbolica, in quanto Fidesz ne controlla oltre i due terzi e può fare e disfare a suo piacimento. Le opposizioni, nell’assemblea del 30 marzo, si erano addirittura dichiarate disposte a votare a favore delle misure speciali, a patto che fosse indicato un termine per la loro fine. Orban li aveva attaccati in modo lapidario: “Siete nemici dell’Ungheria e alleati del virus”.
La pandemia rischia di trasformarsi in un’arma a vantaggio dei leader con tendenza autocratica: in un momento di grande smarrimento e paura, è inevitabile che i cittadini si mostrino rispettosi di provvedimenti che, in condizioni normali, risulterebbero intollerabili.
L’Unione Europea ha reagito alla decisione del parlamento ungherese attraverso le parole del commissario per la Giustizia e lo Stato di diritto, Didier Reynders: “La Commissione europea sta valutando le misure di emergenza adottate degli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali. In particolare per il caso della legge votata in Ungheria sullo stato d’emergenza e le nuove sanzioni penali per la diffusione di informazioni false”.
Anche la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è intervenuta (seppur in modo piuttosto prudente, non menzionando direttamente il caso ungherese), affermando che le misure di emergenza devono essere “limitate al necessario, proporzionate e soggette al controllo, non a scapito dei nostri valori fondamentali”.
In un’Europa flagellata dall’emergenza Coronavirus, i poteri governativi si sono ampliati ovunque: anche in Italia abbiamo visto Giuseppe Conte emanare decreti su decreti. Del resto, è in corso una sfida contro il tempo per salvare vite umane e controllare il più possibile il collasso economico, che è inevitabile. Anche l’Ungheria di Orban si è mossa su questo solco, ma il perimetro d’azione che il primo ministro ha tracciato per sé è illimitato, totalmente sproporzionato. Il timore è che i suoi ‘pieni poteri’ rappresentino il colpo di grazia allo stato di diritto, il passaggio ad una dittatura.
Il Presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, a proposito di valori fondamentali, ha menzionato l’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), aggiungendo che tutti gli Stati membri dell’Unione hanno il dovere di proteggerli.
L’articolo 2, infatti, reca una lista dei valori fondanti dell’Unione, che si stagliano al vertice del sistema gerarchico delle fonti:
L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Si capisce immediatamente come la legge approvata dal parlamento ungherese comporti la violazione di diversi valori fondanti dell’Unione Europea: libertà, democrazia, Stato di diritto…
Stupisce, però, come le reazioni dell’Unione alla svolta autoritaria ungherese non siano state tutte di condanna netta, ferrea. L’impressione è che le stesse istituzioni comunitarie, Commissione in primis, siano consapevoli di avere “armi spuntate”, per riprendere l’espressione del giornalista Pierre Haski.
Innanzitutto, sebbene i Trattati prevedano il diritto al recesso dopo la riforma di Lisbona, non contemplano invece la possibilità di un’espulsione di uno Stato membro, neanche per azioni gravissime, lesive dei valori fondanti, come quelle di cui si è resa protagonista l’Ungheria. Invero, l’idea era apparsa nella stesura della Costituzione europea ma non vi era stato dato seguito per una serie di ragioni: rischio di modifiche ingenti per le quali occorre l’unanimità, negoziati lunghi e complessi, violazione dello spirito originario dei Trattati.
Le “armi spuntate” di cui parla Haski si riducono all’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, che disciplina la cosiddetta ‘procedura d’infrazione’, la cui applicazione è piuttosto complicata.
L’articolo 7.2 prevede che:
Il Consiglio Europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori di cui all’articolo 2.
Proseguendo con il paragrafo successivo:
il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.
Leggendo il testo dell’art. 7 si capisce bene come esso sia uno strumento debolissimo a causa sia della modalità di voto in seno al Consiglio Europeo, sia delle conseguenze (non abbastanza dure) nei confronti del Paese incriminato.
Il Trattato di Nizza ha incluso un meccanismo di prevenzione (paragrafo 1) in base al quale il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può identificare una potenziale violazione e formulare raccomandazioni allo Stato per porvi rimedio prima che si intervenga contro di esso. Il meccanismo è puramente dichiarativo e non sfocia in decisioni vincolanti.
L’Ungheria, negli ultimi anni, ha fatto capire come si limiti a posizionare le raccomandazioni del Consiglio nella cartella ‘spam’ della sua posta elettronica.
Affinché si arrivi a comminare sanzioni, occorre superare lo scoglio dell’unanimità in seno al Consiglio Europeo (dalla votazione, ovviamente, è escluso il Paese contro il quale è in corso la procedura). Sappiamo bene che Orban può contare su alleati stabili e duraturi in Europa, accomunati da un euroscetticismo radicato: i paesi del gruppo di Visegrad (al quale appartengono la stessa Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, ma soprattutto la Polonia).
Orban sa che il Consiglio Europeo non arriverà mai ad applicare le sanzioni dei Trattati perché ci sarà sempre l’alleato polacco che impedirà l’unanimità necessaria. Ecco, dunque, spiegato il cortocircuito dell’articolo 7: basta una minima solidarietà tra Stati membri (allineati più o meno su stesse posizioni) a porre fine alle velleità di controllo dell’Unione.
L’applicazione di tale norma nei confronti dell’Ungheria era stata già richiesta al Consiglio, nel 2018, da un nutrito gruppo di eurodeputati, preoccupati dal deterioramento dello Stato di diritto in terra magiara, esprimendo preoccupazione sul funzionamento delle istituzioni, in particolare riguardo al sistema elettorale, all’indipendenza della magistratura e al rispetto per le libertà civili. Nel dicembre scorso, inoltre, l’Ungheria è stata invitata a rispondere sulla politica giudiziaria e sulla limitazione delle libertà di espressione di fronte al consiglio Affari Generali, per violazione gravi dei valori dell’Unione. La procedura è ancora impantanata con il Parlamento europeo che chiede date precise e vere decisioni da parte della Commissione.
Tornando all’art. 7, la sanzione più eclatante che può essere comminata con l’attuale norma è quella che impedisce il diritto di voto al rappresentante ungherese in Consiglio. Ciò potrebbe rivelarsi troppo poco. Si potrebbe, quindi, ipotizzare di colpire quei Paesi nell’unico ambito che li convince a rimanere nell’Unione: i finanziamenti comunitari. Non è chiaro se tra le sanzioni prospettate all’art. 7.3 sia contemplata la sospensione del versamento di fondi europei (dai quali l’Ungheria dipende per il 4% del suo PIL). Come giustamente affermato dalla Ministra francese delle questioni europee, Nathalie Loiseau, “un Paese che si allontana dallo Stato di diritto deve prendere una decisione: o è un paese sovrano, o chiede a Bruxelles di essere sostenuto con i miliardi provenienti dai fondi di coesione”.
Tra le possibilità di sanzione si potrebbe, pertanto, valutare di esplicitare la sospensione dei fondi di coesione, senza però far passare la modifica per il voto all’unanimità al Consiglio Europeo; altrimenti si innescherebbe un circuito senza uscita. Stessa cosa dicasi per la revisione della modalità di voto in seno al Consiglio Europeo, anche se, almeno al momento, è utopico ritenere che qualcosa possa cambiare, essendo la procedura di revisione ordinaria particolarmente complessa e strettamente legata alle volontà nazionali.
Inoltre, per come è posto, l’articolo 7 rischia di non fare altro che fomentare l’euroscetticismo di alcuni Paesi, che vedono l’Unione come un’organizzazione ostile alla sovranità nazionali e che arriva “addirittura” ad impedire ad un governo nazionale di esprimersi con il diritto al voto. La scelta di una sospensione dei fondi di coesione potrebbe essere più appropriata, in quanto colpirebbe al cuore gli unici interessi degli Stati in questione.
Al fine di muoversi in questa direzione, occorre però grande forza di volontà da parte dell’Unione, che ancora non si è pronunciata con dichiarazioni di critica perentoria al colpo di mano di Orban.
Le reazioni sono ancora molto deboli. Per non parlare del silenzio del principale gruppo politico del Parlamento europeo, il PPE, al quale appartiene (ancora) anche Fidesz, il partito di Orban. Per inciso, i 13 eurodeputati di Fidesz erano stati espulsi dal partito un anno fa e, ad oggi, non si sa se verranno riammessi oppure no. Il PPE, a suo tempo, aveva votato a maggioranza a favore della risoluzione del Parlamento europeo che aveva chiesto conto alla Commissione sul deterioramento dello stato di diritto in Polonia e Ungheria. In particolare, era stato il partito tedesco della CDU (quello di Angela Merkel) a sostenere questa posizione, mentre i rappresentanti francesi, spagnoli e italiani (Forza Italia) erano per una linea morbida.
In ogni caso, Orban si sta già dando da fare per un cambio di alleanze europee e sta stringendo contatti sempre più stretti con il PIS (nel gruppo Conservatori e Riformisti), primo partito in Polonia che presenta attualmente due propri esponenti, Andrej Duda e Mateusz Morawiecki, quali presidente e primo ministro. Il capo di questo partito, Jaroslaw Kaczynski, è considerato il vero padrone della Polonia, restando in tema di autoritarismo.
È rinomato che i vari Orban, Morawiecki, Babis sostengano l’idea di un’Europa fatta di Stati sovrani. L’ossimoro appare chiaro: nell’Europa delle nazioni da loro agognata, le istituzioni europee non avrebbero nemmeno senso di esistere. Se l’Unione vuole davvero essere la garante del diritto, potrebbe valutare di andare nella direzione federale. In quel caso, il controllo istituzionale potrebbe essere finalmente efficace e libero dalla precarietà attuale, data dal bisogno di raggiungere sistematicamente l’unanimità dei Governi nazionali.
Un ennesimo atteggiamento rinunciatario da parte delle istituzioni comunitarie aprirebbe le porte ad altre derive autoritarie in Europa. Come scrive Pierre Haski sulla rivista Internazionale: “Un club che non fa rispettare le sue regole perde di credibilità”.
A cura di Tommaso Borzacchini.