Nella giornata del 23 giugno, come ormai sappiamo bene, il Regno Unito è chiamato a compiere un atto le cui ripercussioni scuoteranno l’intera Europa fino ai suoi meandri più remoti: esprimere il proprio assenso o rifiuto sulla proposta di lasciare l’UE. Il “Brexit”, termine giornalistico con cui è divenuto noto al pubblico questo referendum consultivo, è attualmente una realtà tanto concreta quanto preoccupante: presentato come parte del manifesto politico della campagna elettorale di David Cameron nel 2015 – mossa politica volta ad acquisire parte del bacino elettorale dell’UKIP di Nigel Farage – è finito con il divenire una prospettiva più reale di quanto le stime al ribasso dello stesso premier fossero disposte ad ammettere. Se il successo elettorale ha potuto garantirgli una maggioranza parlamentare storica, il suo stesso governo risulta al momento diviso: 5 ministri ed un sottosegretario hanno infatti dichiarato di essere favorevoli all’uscita dall’Unione. Come fatto anche da una porzione considerevole del Partito Conservatore, situazione che ha costretto Cameron a richiedere l’appoggio dei laburisti con cui sta conducendo la campagna per il No.
Si potrebbe parlare di un vistoso scivolone del primo ministro, vista la spavalderia con cui riteneva che l’opinione pubblica inglese fosse fortemente contraria all’uscita, per poi essere smentito a partire da metà aprile, con dati che hanno dimostrato una polarizzazione netta dei due schieramenti, i quali sembrano raggruppare l’intera nazione in due metà equivalenti. Tuttavia, ciò che non bisogna perdere di vista è che a minacciare la stabilità dell’Unione sia qualcosa di ben più profondo rispetto ad ogni evento precedente: se fino ad oggi l’Europa è stata messa alla prova quasi esclusivamente dal punto di vista economico, a cominciare dalla crisi economica del 2008/09 e dalle sue conseguenze sul piano del debito pubblico, fino ad arrivare al Grexit ed all’imponente crisi sul piano occupazionale e del welfare, il referendum consultivo nel Regno Unito e le elezioni politiche spagnole del 26 giugno (altro evento caldo per l’Europa) sfidano la solidità prettamente politica dell’UE, come già fatto nell’anno passato dalle elezioni regionali francesi.
Non si tratta più solamente di spread, deficit e debiti, ma della stessa possibilità di poter portare avanti il processo di integrazione e convergenza europeo. Se dovessimo assistere da un lato alla vittoria del Sì al Brexit e, dall’altro, all’affermazione dei partiti euroscettici spagnoli all’interno della politica nazionale, diverrebbe palese il fallimento del modello comunitario auspicato e promosso dall’attuale élite politica, economica e sociale.
È proprio l’élite, come concetto ideale e come gruppo dominante, ad essere al centro di quanto sta avvenendo nel Regno Unito, assieme al rapporto che essa ha con il resto della popolazione: l’inaspettata spaccatura dell’opinione pubblica ha lasciato stupiti coloro che pensavano di poter controllare quello stesso referendum che Cameron adoperò come arma di ricatto nei confronti dell’Europa per ottenere maggiori concessioni da Bruxelles, obiettivo per altro poi raggiunto. Prima del tragico omicidio della laburista Jo Cox il 52% dei britannici risultava favorevole all’uscita.
È evidente che chi ha ritenuto il Brexit come un fuoco di paglia destinato a spegnersi da sé ha commesso un notevole errore di valutazione, riscontrabile principalmente all’interno delle classi più elevate della popolazione. Esse hanno sempre ritenuto che le spinte antieuropeiste fossero solamente l’appannaggio di una porzione particolarmente ignorante della popolazione, una tesi sostenibile solamente da chi non avesse abbastanza cultura politica per poter essere anche solo lontanamente degno di inclusione nel discorso politico. Eppure, la situazione si conferma più complessa di quanto sembri: come si può evincere dalle elezioni francesi del dicembre 2015, la deriva di destra assunta da una parte crescente della popolazione è collegata a forti spinte euroscettiche, sostenute dalle ambizioni sociali di quella base democratica di ceto medio basso che è rimasta inascoltata all’’interno del dibattito pubblico: studenti, lavoratori precari, anziani, piccoli borghesi delle periferie e tanti altri. Costoro hanno trovato voce, per questo ed altri motivi, legati soprattutto alla congiuntura economica, all’interno del Front National di Marine Le Pen, di cui hanno abbracciato il messaggio ostile contro l’Europa e contro la classe politica nazionale repubblicana e socialista, ormai completamente distaccata da quei gruppi sociali.
Il fallimento della politica tradizionale, la quale sostenendo (inevitabilmente?) politiche economiche svantaggiose per i ceti più bassi della popolazione in risposta alle tendenze centrifughe della globalizzazione – in particolar modo del mercato unico – è andata a ledere le condizioni economiche e sociali di questi gruppi, creando un clima di esasperazione e rabbia nei confronti delle istituzioni nazionali ed europee. A ciò si aggiunge il fatto che le prime spesso scaricavano e scaricano la responsabilità politica sull’Europa per non perdere appoggio elettorale (ne è rappresentativo il tormentone italiano del “Ce lo chiede l’Europa”).
Tale clima, aggravato dalla recente crisi economica e dalle massicce ondate migratorie, ha creato una miscela euroscettica pronta ad esplodere che, unita al parziale fallimento dei sistemi democratici occidentali e alla conseguenti mancanza di rappresentatività e tutela per gli strati sociali meno abbienti, sta portando all’attuale crisi del consenso politico ed ad un clima di generale sfiducia nei confronti dell’idea stessa di Europa. A tal proposito è sufficiente osservare le dichiarazioni di Nigel Farage, il quale ha più volte espresso la volontà di “distruggere” l’Europa. Non si tratta più di contestare il modello economico, bensì di opporsi all’idea stessa di Europa.
L’Unione appare minacciosa perché lontana: si percepisce spesso un senso di impotenza nei confronti dei provvedimenti impartiti da essa, dal momento che soprattutto in ambito economico esercita un’influenza legislativa considerevole, forse non adeguatamente sostenuta da una legittimazione democratica altrettanto forte. È anche vero che spesso sono gli stessi cittadini a non conoscere a pieno il funzionamento dell’Unione Europea, condizione che pagano in termini di bassa incisività politica.
Tornando però al Brexit: le dinamiche evidenziate a livello europeo sono in atto anche all’interno di questo evento, forse considerabile come un autentico spartiacque politico e culturale per l’Europa. Si tratterà di scegliere non solamente se rimanere uniti o separarsi dalla più grande confederazione mai esistita: la scelta sarà orientata anche verso l’opportunità o meno di cambiare verso, di intraprendere un percorso alternativo rispetto all’Europa del TTIP e dei bilanci in pareggio.
Ma quali sono le ripercussioni che potrebbero investire le parti in causa, ossia il Regno Unito e l’Europa, sia come entità singola che come insieme di Stati membri? Dal punto di vista economico, i segnali raccolti dagli osservatori finanziari evidenziano una volatilità inusuale nei mercati borsistici europei, oltre ad un’enorme e preoccupante fluttuazione del valore della sterlina. Tali effetti sono un’evidente anticipazione delle ripercussioni destabilizzatrici di un’eventuale uscita del Regno Unito dallo spazio comunitario. Per l’economia inglese in primo luogo le previsioni sono preoccupanti: le stime del Fondo Monetario Internazionale rivelano come il Regno Unito correrebbe seriamente il rischi di una recessione, con una contrazione del PIL pari allo 0,8% in luogo della prevista crescita dello 2,2% in caso di permanenza nell’UE; le stesse finanze pubbliche inglesi, come recentemente affermato dal Premier Cameron, vedrebbero l’aprirsi di una voragine di 20-40 miliardi di sterline, pari ad una forbice di 25-51 miliardi di euro.
Se sarà quindi il Regno Unito a subire le ripercussioni più grandi dal punto di vista economico, anche l’Europa corre rischi non indifferenti, per quanto più contenuti. Se da una parte la debole ripresa accennata nella prime parte dell’anno andrebbe parzialmente rivista al ribasso fino ad arrivare ad una possibile stagnazione del PIL europeo per il biennio 2016-2017, dall’altra i mercati potrebbero potenzialmente subire enormi scossoni finanziari e perdere la poca fiducia acquisita negli anni di ripresa, causando un ribasso generalizzato del valore dei listini europei. L’interruzione delle 4 libertà di circolazione garantite dai Trattati comunitari (delle persone, dei beni, dei servizi, dei capitali) recherebbe importanti disaggi sia a tutti quei cittadini britannici che lavorano e vivono nei paesi UE, sia per converso a tutti i cittadini europei -tra i quali vi sono 600.000 italiani- residenti nel Regno Unito, oltre a marginalizzare il ruolo della borsa finanziaria londinese, attualmente la più grande tra quelle europee, nel circuito dei mercati di capitali d’Europa.
Le conseguenze politiche saranno comunque le più gravi. Il processo di integrazione europeo vedrebbe quindi un primo, sostanziale e considerevolissimo fallimento, capace potenzialmente di arrestarlo per anni. Si verrebbe inoltre a creare un illustre precedente nella definizione delle procedure dall’uscita comunitaria, con il concreto effetto di velocizzare e facilitare ulteriori ipotetiche uscite. La ripercussione più grave potrebbe però essere un’altra: il Brexit sarebbe, potenzialmente, in grado di catalizzare il sentimento euroscettico, creando una definitiva reazione a catena di estremi malcontento e odio nei confronti delle istituzioni e perfino dell’idea stessa di Europa, ancor di più di quanto ciò oggi non avvenga.
Una conseguenza è però certa, e questa si verificherà in entrambe le ipotesi a cui porterà il referendum consultivo del Brexit. Sia in caso di vittoria del sì, sia in quello del no, infatti, è evidente che le ripercussioni sull’impalcatura ideologica, legislativa e istituzionale dell’Unione andrà ripensata, come per altro è stato reso evidente dalle passate crisi economiche. Le politiche perseguite in questi anni dall’Europa si stanno rivelando in tutta la loro inefficacia, dall’austerità proposta in campo economico, agli accordi, conclusi o in via di contrattazione, miopi e frutto di interessi palesi e spregiudicati (il recente accordo con la Turchia sulla redistribuzione dei migranti o il TTIP con gli Stati Uniti), passando per i ripetuti procedimenti lesivi delle economie e società del Sud Europa – non ultimo l’impasse delle procedure di ripartizioni delle quote migranti, rifiutate dai Paesi del Nord –.
Davanti a queste criticità evidenti del sistema – Europa, allora, il Brexit e il suo risultato incerto, così come le elezioni spagnole e quelle francesi dell’anno passato, possono e devono dare il segnale di inderogabile cambiamento che tale sistema deve affrontare per mantenere quelli che sono i suoi obiettivi originari di indiscusso valore:
“L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli.
L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone” (Art. 3, c. 1 e 2, TUE).
A cura di Riccardo Antonucci e Francesco Cocozza