“Come si può far conoscere la verità?”
Questa domanda viene timidamente avanzata da una giovane studentessa in hijab intorno alla fine della conferenza dell’attivista e videomaker siriano Firas Fayyad.
Sembra una domanda banale – l’ABC del giornalismo, quasi – ma è diretta, è tagliente. Spiazzante nella sua semplicità, come i grandi “perché” di un bambino.
In questo senso, l’ultimo lavoro di Fayyad, Last men in Aleppo, è un documentario drammatico, potentissimo e imperdibile. Premiato al Sundance Film Festival 2017, Fayyad dirige un viaggio nel cuore di una città duramente colpita attraverso gli occhi dei suoi ultimi eroi.
È un’enorme responsabilità, quella di rendere giustizia al lavoro svolto dai caschi bianchi: ogni giorno, questi volontari rischiano la vita per recuperare centinaia di persone da sotto le macerie. È solo grazie alla loro immensa tenacia e abnegazione che Aleppo può dirsi non totalmente abbandonata a se stessa. Dalle loro storie emergono speranze e paure, vittorie e sconfitte che si possono percepire da vicino.
L’esigenza di mostrare al mondo che qualcuno resiste, che combatte per una causa non perché si aspetta di vincere ma semplicemente perché deve farlo, diventa un dovere. Una missione magistralmente compiuta e un brillante esempio di collaborazione e umanità.
Finita la conferenza, ho avuto l’occasione di intervistare Fayyad.
Servire tra i caschi bianchi è stato descritto come “il lavoro più pericoloso del mondo”. Come è possibile compiere questi atti estremi di eroismo e resistenza?
Mi sento responsabile di raccontare di questo lavoro pericoloso, di cosa spinga queste persone a restare in luoghi che la maggior parte degli abitanti si è amaramente lasciata alle spalle. Tutto nasce, credo, dal desiderio di ritrovare l’essere umano nel mezzo del caos, di comprendere e riscoprire quali siano i valori propriamente “umani”.
Per quanto riguarda la percezione globale della guerra in Siria, crede che questa costante attenzione mediatica possa venire strumentalizzata o persino distogliere l’attenzione dal vero problema?
La vera questione è che la stampa internazionale non aveva, originariamente, una seria intenzione di coprire la guerra in Siria. Molti giornalisti vi si sono recati in maniera del tutto indipendente a costo della loro stessa vita, ma i big media non vogliono che raccontino queste storie – ho sentito di molti reporter che sono stati attivamente ostacolati in tal senso. Il problema risiede nei media intesi come organizzazione, come sistema: è nel momento in cui la verità viene intesa come un fine da perseguire che si può fare e avere giustizia.
Le viene in mente un qualsiasi episodio particolarmente memorabile o toccante avvenuto durante le riprese?
Mentre uno dei nostri collaboratori più stretti era intento a prendersi cura di alcuni bambini, la sua base ha ricevuto un attacco diretto. È stato uno dei momenti più duri. E due personaggi apparsi nel trailer hanno perso la vita prima che il documentario venisse portato a compimento.
Ha in mente altri progetti in futuro?
Certamente. Ho già finito il 70% delle riprese del nuovo progetto su cui sto lavorando, che spero di poter ultimare entro il prossimo anno. Per adesso non posso entrare nel dettaglio del soggetto.
Nel frattempo, Last men in Aleppo uscirà nelle sale intorno a maggio.
A cura di Furio Duratorre.