Seguaci della “Scia” vittoriosi su quelli della “Sunna” : come il confronto tra sunniti e sciiti, tra Sauditi ed Iraniani sta modificando la carta geopolitica del Medio Oriente.
La riconquista di Raqqa costituisce “una pietra miliare importante” nella lotta contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis): lo ha affermato il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.”L’Isis ha perso l’85% del territorio che occupava in precedenza, è in ritirata ma dobbiamo continuare negli sforzi congiunti per sconfiggere il terrorismo”, ha concluso Stoltenberg. Tali dichiarazioni del Segretario della Nato, rilasciate il 19 ottobre di quest’anno, celano una mal riposta fiducia in quella che in Occidente viene oramai percepita come una vittoria decisiva su un Daesh oramai in ritirata da mesi, se non anni. Dalla presa di Mosul nel giugno 2017, alla caduta di Raqqa passando per la presa di Tal Afar in settembre gli uomini del Califfo hanno ripiegato su posizioni di emergenza a sud dell’Eufrate, dove si stanno asserragliando per un ultimo disperato tentativo di resistenza contro la coalizione costituitasi sotto l’egida statunitense e le milizie sciite appoggiate dall’Iran, operative in chiave filogovernativa in Siria, dove danno manforte al regime di Assad, che ha lanciato le recenti offensive grazie al sostegno politico economico e militare del Cremlino.
Il ruolo di Mosca è degno di rilievo non solo per l’appoggio logistico garantito dalla presenza in loco delle truppe della Federazione Russa, ma anche per i nuovi orizzonti che il rinnovato attivismo mediorentale dell’ex impero sovietico (andato scemando dopo la traumatica esperienza Afghana) ha aperto in termini di sviluppi geopolitici e relazioni diplomatiche, portando ad un sostanziale ridimensionamento del ruolo di potenza preminente nell’area ricoperto dagli Stati Uniti. A tale declino, seppur parziale, dell’influenza americana hanno contribuito le varie contraddizioni esistenti nella politica estera delle ultime tre amministrazioni, a partire dalla confusione generale creata dalle controverse prese di posizione dell’amministrazione Obama, in conseguenza del ritiro generale delle truppe statunitensi e Nato dall’Iraq, reo di aver aperto la strada alle conquiste e alle vendette dei sunniti, manifestatesi sotto forma di Califfato islamico e terrorismo. L’errore commesso, in buona fede se guardiamo all’impatto delle spese di occupazione di Iraq e Afghanistan sul bilancio federale Usa, all’epoca in stato a dir poco precario in seguito agli sconvolgimenti di carattere economico e finanziario generati dal credit crunch del 2008, fu infatti quello di affidarsi ad un debole esecutivo locale delegittimato dalla sua fede sciita rispetto alla maggioranza sunnita, che è da sempre preponderante nel contesto socio-culturale e politico del paese, per l’esercizio delle rispettive funzioni amministrative di governo chiudendo così gli occhi d’innanzi alla realtà disarmante costituitasi in seguito alla disastrosa gestione dell’intervento militare del 2003 nella regione. Obama e i funzionari statunitensi optarono per il ritiro dall’Iraq dopo aver sì ereditato una situazione ingestibile dall’amministrazione Bush, ma al contempo dimenticandosi (o sottostimando il fatto) che l’unica cosa che potesse in qualche modo fungere al tempo da ostacolo de facto ad una guerra civile tra seguaci della sunna e della scìa fosse la presenza sul terreno delle truppe americane e dei loro alleati. In seguito alle disastrose conseguenze di quella decisione, Washington si vide costretta a cercare l’appoggio di Theran, barattando, in cambio dell’intervento sciita iraniano contro Isis e milizie sunnite atto a stabilizzare l’area, l’eliminazione dello status attribuito all’Iran di Stato canaglia e la sua graduale reintegrazione nel mercato globale tramite l’abolizione delle sanzioni economiche.
Posto a garanzia di tale compromesso, l’accordo sul nucleare, che avrebbe in linea di principio dovuto porre definitivamente fine alle ambizioni persiane e garantire uno sviluppo relativamente pacifico dei rapporti con la Repubblica islamica. Questi è stato preso regolarmente di mira dal candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump , che una volta arrivato alla Casa Bianca si è speso affinchè l’accordo venisse annullato e ha ufficialmente e chiaramente sottolineato come il vero nemico nel Golfo Persico (o arabico) sia di fatto l’Iran e con essa tutti i gruppi terroristici o le milizie che godono del suo beneplacito e appoggio, tra cui non possiamo non annoverare Hezbollah. La posizione “filo-sunnita”, o meglio filo saudita, tenendo conto anche dei recenti accordi in ambito militare, si discosta totalmente dal tentativo di Obama di intraprendere una Proxy War(guerra per procura) sfruttando le divisioni e i conflitti endogeni al mondo musulmano. Trump predilige una forma di approccio diretto e, mancando di una grande visione politica a lungo termine, tende a cavalcare l’onda dei singoli avvenimenti in relazione agli umori dell’opinione pubblica a stelle e strisce. In tal senso, al fine di dare la sensazione di una svolta epocale nella gestione della politica estera ai suoi elettori, che somiglia più che altro ad un ritorno alle origini della politica repubblicana, Trump coltiva i tradizionali rapporti con i Sauditi, schierandosi inizialmente a favore delle sanzioni al Qatar e del suo conseguente isolamento politico e provocando la potenza regionale persiana sciita, al fine di guadagnare il favore israeliano. I rapporti con Tel Aviv sono usciti guastati, impiegando deliberatamente un eufemismo, da otto anni di presidenza Obama tanto da spingere il governo guidato da Benjiamin Nethanyau e dal partito di destra Likkud a cercare alternative (seppur in sostanza inesistenti) alla dipendenza del paese dalla politica Usa e dagli aiuti garantiti da Washington. Da un lato questo ha anche avuto effetti positivi poiché ha aperto nuovi possibili scenari politici nella regione, come il precedentemente improbabile avvicinamento tra Ankara e Tel Aviv. Tuttavia questa discontinuità nella gestione politica delle relazioni internazionali da parte americana lascia intendere l’allarmante assenza di una strategia di lungo termine.
La politica estera, in particolare nell’era della globalizzazione, non può essere delegata ai singoli personaggi in voga del momento, ma deve essere parte integrante dell’attività di governo indipendentemente dal colore politico dell’esecutivo uscito vincitore dalle elezioni. La politica estera deve essere quella degli Stati Uniti, non di Trump o Obama. Eppure questa patologica assenza di linee guida nella gestione delle controversie internazionali pare oramai essere un tratto caratteristico delle democrazie occidentali e non solo. La drammatica situazione del Qatar, uno dei principali investitori nelle economie dei paesi sviluppati, ne costituisce una prova tangibile: Europa e Stati Uniti si sono cimentate in mirabili dimostrazioni di equilibrismo politico, da un lato dando credito alle vociferazioni, in parte riscontrate, che indicano il Qatar come il principale finanziatore (insieme ai suoi accusatori Sauditi) del terrorismo internazionale. Dall’altro sia le principali capitali del vecchio continente che quella del nuovo mondo hanno aspramente criticato la durezza delle sanzioni e il modo in cui siano state estese a tutti i settori dell’economia e nel tempo. La verità è tuttavia un’altra. La crisi che ha investito il piccolo ma influente Stato del Golfo fa parte di un ben più ampio disegno attuato dalla Monarchia Saudita, che si trova al momento impegnata in una vera e propria lotta per la sopravvivenza stessa dell’istituzione che essa rappresenta. Il conflitto è sia endogeno che esogeno a casa Saud, come viene chiaramente esemplificato dalla campagna anticorruzione condotta in questi giorni ai danni di alti funzionari e membri stessi della famiglia reale (principi e ministri), potenziali competitors, o addirittura dichiarati oppositori di Bin Salman e della sua ascesa al trono. Più di duecento arresti, questo il bilancio di quella che potremmo definire un’”esotica manipulite”, che rischia di incrinare ulteriormente la già fragile infrastruttura sociale, culturale e politica del paese, bloccato in un limbo tra tradizione e imprescindibile modernizzazione, tra passato e presente immediato. Contemporaneamente Ryad si trova a fronteggiare la crescente minaccia sciita capeggiata dall’Iran, che può vantare una rinnovata legittimità all’interno della cornice degli equilibri regionali avendo giocato tramite le sue milizie un ruolo fondamentale nella lotta allo Stato Islamico, sostenuto da uno strano asse tra potenze sunnite e, seppur in prevalenza nella forma della non azione, da Israele, che si è limitato a osservare l’evolversi degli eventi o in parte a pilotare la situazione nella speranza di veder concretizzarsi il sogno di Ben Gurion di un mondo arabo indebolito e frammentato intorno ad uno Stato ebraico forte, unito e consolidato nella sua ferma determinazione a sopravvivere. Il Qatar dal canto suo, come d’altronde l’Oman, ha sempre tentato di mantenere una posizione di neutralità o se non altro di cooperazione costruttiva con tutti i suoi vicini, Iran incluso, a dispetto delle distinzioni di carattere religioso e delle interpretazioni dei principi dettati dalla scrittura coranica. Questo ha fortemente indispettito, insieme alla crescente influenza economica del paese in virtù dei suoi massicci investimenti all’estero, l’Arabia Saudita che ha deciso di agire colpendo l’economia Qatariota e facendone così un chiaro monito per tutti gli altri Stati sunniti rei di essersi emancipati fuoriuscendo dall’orbita di Ryad. Se ciò abbia sortito l’effetto sperato è ancora presto per dirlo, ma la recente sottoscrizione da parte di Mauritania e Giordania delle sanzioni e il disperato tentativo Doha di risolvere la situazione tramite il negoziato non lasciano ben sperare per quanto concerne la stabilità dell’area nel prossimo futuro.
A cura di Edoardo Chiais