Revenge porn – con focus sul caso della maestra di Torino

Revenge porn – con focus sul caso della maestra di Torino

Cattiveria: “Innata disposizione a far del male, a recar danno al prossimo nelle sue cose o nelle sue aspirazioni”, questa è la definizione data dal vocabolario italiano.

Sembra quasi ironico che reciti “innata”, come a voler dire che è qualcosa che si ha dalla nascita, qualcosa che inconsapevolmente ci si porta dentro fino a quando non si è grandi abbastanza da saperla utilizzare nel modo più pericoloso che esista, con consapevolezza.

Con l’unico scopo automatico di recare danno al bene più grande che ciascuno di noi ha, la vita, intesa in determinati aspetti che nel caso di cui voglio parlare assumono la sfaccettatura della sessualità, della dignità, del consenso e dell’emancipazione.

Ahimè, è purtroppo facile immaginare a quale genere ci si riferisca quando si pronunciano queste parole e questo è quello che fa più rabbia in assoluto. Dovremmo essere nel secolo del progresso, eppure ancora sembra che le pulsioni primordiali continuino a prendere il sopravvento sul buon senso e sulla ragione, considerando che culturalmente ormai siamo andati avanti (o, almeno, così dovrebbe essere).

L’essere umano è capace di compiere molte cattiverie, ma oggi voglio soffermarmi su una in particolare, alla luce delle ultime vicende di cronaca che hanno riguardato il caso della maestra di Torino.

La cattiveria sotto il riflettore è di nuovo lui, il revenge porn, identificabile come la pubblicazione o anche la minaccia di pubblicazione (a scopo di estorsione) di materiale intimo, senza che sia stato dato il consenso della persona interessata o coinvolta.

Oggi è reato e aggiungerei “finalmente” se questo fosse servito a estirpare questo fenomeno. Lo prevede l’art. 612ter del codice penale, introdotto dalla legge 69 del 2019 in vigore da Agosto 2019, soprannominato il cd codice Rosso.

Allego per chiarezza di discorso il testo integrale del neo articolo che punisce “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde, senza l’espresso consenso delle persone interessate, immagini o video sessualmente espliciti, destinati a rimanere privati – con – la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro”.

Prima di passare all’analisi del circolo vizioso a cui può dare inizio, bisogna puntualizzare che questo fenomeno trova terreno fertile specialmente sui social network: non molto tempo fa era scoppiata la polemica dei gruppi di Telegram… ebbene, alla schiera si aggiungono quelli di Whatsapp.

Il CASO SPECIFICO

Il caso di recente cronaca ha avuto luogo proprio in una chat di questa app, precisamente a tema calcetto, all’interno del quale è stato divulgato del materiale intimo di una maestra d’asilo dal suo ex fidanzato, il tutto è avvenuto senza il consenso dell’interessata. Cosa è successo dopo? Uno dei componenti del gruppo ha riconosciuto la donna nel video e lo ha girato alla moglie che a sua volta lo ha fatto circolare. A detta della “moglie spiona” l’intento era quello di avvisare la maestra e la direttrice della scuola per salvaguardarla, chissà quanta verità ci sia dietro questa giustificazione, eppure certo è che la conclusione raggiunta è stata decisamente diversa. La maestra alla fine è stata licenziata e la sua vita è stata distrutta sotto ogni punto di vista.

La vicenda chiarisce quanto sia attuale e reale questo problema nella società in cui viviamo e la portata distruttiva che è fondamentale riconoscere.

Nel caso specifico, bisogna chiedersi perché ci sono ancora uomini che credono di avere il diritto di inoltrare video di una donna che hanno ricevuto come se fosse una figurina? In generale, invece, perché ci sono persone che credono di avere il diritto di inoltrare video/foto di una persona che hanno ricevuto come se fossero figurine?

Sta tutto qui: nella cultura e nella giustificazione morale che tale gesto ha alle spalle.

Un’azione che è stata definita da un soggetto intervistato dal Fatto Quotidiano come una “goliardata maschile”, ma che è la cattiveria più pericolosa che esista.

Un gesto del genere può distruggere una vita, sia quella di chi è il volto dei video o delle foto, sia quella di chi si rende artefice di questo meccanismo.

La legge ha compiuto un passo, il codice Rosso è il paladino di una nuova concezione culturale, una protezione accordata in virtù del cambiamento dei tempi, adattata alle nuove esigenze di tutela correlate all’espandersi della tecnologia e delle realtà virtuali.

Peccato che una legge non può raggiungere il suo scopo da sola, serve che la mentalità cambi con essa, che si adatti. In casi come quello descritto sopra, lo scrigno è stato aperto e diventa perciò inevitabile che altri fenomeni si verifichino e si espandano indisturbati, cavalcando indifferenza e ignoranza di chi potrebbe far qualcosa, ma decide di non agire… per comodità?

SECONDA CONSEGUENZA – lo Slut-Shaming

Secondo step di questo infernale meccanismo è lo slut-shaming. Automaticamente si procede attaccando le donne interessate per aver trasgredito i codici di condotta sessuale tipica, una sorta di punizione per i comportamenti o desideri che appaiono agli occhi della gente come eccessivamente “sessuali”, e quindi inaccettabili. Il tutto si riduce alla mentalità del “lei può essere sessuale, ma non troppo sessuale” – così esemplifica Emily Bazelon, giornalista americana e redattrice per il NYT.

È un meccanismo questo che è utilizzato sia da uomini che da donne indistintamente, ed è un fenomeno secondo cui ci si sente autorizzati a colpevolizzare qualcun altro per le sue scelte e serve a mimetizzare la pericolosità di questo gesto per farlo passare attraverso una “forma socialmente accettabile di critica sociale dell’espressione sessuale femminile” (citazione di Jessica Ringrose, professoressa di sociologia di genere ed educazione a Londra).

Il fatto però è che nessuno è legittimato a fare ciò, nessuno è più innocente di altri al punto da poter sindacare sulla scelta di qualcuno e sul modo in cui si decide di vivere la propria sessualità, una sfera tra le più intime della persona, un qualcosa di invisibile ma radicato nel profondo dell’io di ognuno. Nessuno dovrebbe violare questo spazio o abusarne in alcun modo.

Spesso i casi come questo riguardano storie di persone che per un periodo della loro vita si sono amate davvero, si sono volute bene e confidate al punto da sentirsi libere di condividere anche questa parte di loro stessi con la persona che avevano scelto. È triste perciò pensare come un gesto di fiducia di tale portata possa tramutarsi, in base alla concezione sbagliata di alcuni aspetti culturali, nell’arma letale più pericolosa che continua a stigmatizzare il corpo di una donna, diffondendo l’idea che debbano ancora rispettarsi dei canoni che non esistono più.

TERZA CONSEGUENZA – Victim-Blaming

Tutto questo poi si riflette anche in altri ambiti, lo slut-shaming porta inevitabilmente ad identificare il colpevole del tutto nella stessa vittima, secondo il fenomeno definito come il victim-blaming nella linea del “se l’è cercata”.

Bisogna smetterla di alimentare questi dibattiti che non si focalizzano sulla persona che ha subito il tutto ma anzi la distruggono, la colpevolizzano socialmente. La condanna in questi casi non avviene in tribunale per queste vittime, ma avviene nella società, nella vita reale, è ancora più crudele e soprattutto, non è giusto.

CONCLUSIONI

Se non si ferma questo meccanismo, finiremo in un mondo che tra 50 anni richiederà ancora alla nostra generazione (quella nuova poi) di continuare ad insegnare ai propri figli e alle proprie figlie che certe cose non si devono fare – alcune cose sono normali perché si è maschi e altre no perché si è femmine – e allora si sarà creata una catena infinita e indistruttibile.

Bisogna spezzare questa catena da ora, bisogna iniziare a lavorare sulla mentalità già da ora affinché si ponga fine a questi dibattiti che alcuni hanno definito “tra fazioni” (quella maschile e quella femminile) e si insegni a fare una corretta colpevolizzazione in queste situazioni, solo così si arriverà a poter garantire davvero alle nostre figlie l’emancipazione femminile che tanto si dice esiste già.

C’è un detto che dice “Se vuoi costruire una grande città, crea una grande università e aspetta 200 anni”. Per questo tema forse è necessario riproporlo in modo diverso: non si può creare un’università, ma può allinearsi la mentalità e dire che, se vogliamo che i nostri figli vivano in un mondo in cui potranno essere considerati emancipati sotto ogni punto di vista, bisogna dare ad ognuno una parte in questa battaglia.

Una parte che per certi versi resta ancora molto forte e nelle mani del genere maschile, che ha la possibilità di fare la differenza in concreto, di interrompere la condivisione di materiale di questo tipo nei gruppi in cui è più probabile che questo avvenga, per allineare la società e le future generazioni verso una nuova mentalità.

Più sentimentale forse ma soprattutto più rispettosa dei diritti di ciascuno.

Articolo a cura di Paola Nardella

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