Rifugiati: cosa c’è dietro ai numeri?

Rifugiati: cosa c’è dietro ai numeri?

Alioud.

Alioud è alto, gentile, composto, con un viso pieno di espressività. È figlio, fratello, amico e compagno di qualcuno. È stato muratore, elettricista, ha assistito gli anziani; infine, è senegalese. Normalmente la nazionalità di una persona è un particolare, un dettaglio, un’informazione di ciò che quella persona complessivamente è; rappresenta l’appartenenza rispetto a qualcosa. Non lo è per Alioud che continua a ripetere che l’essere senegalese è tutto, che non serve a molto raccontarmi chi sia perché potrei immaginarlo facilmente leggendo, anche senza troppa attenzione, la storia del Senegal; perché lui non ha mai avuto la possibilità di diventare qualcuno, di scegliere chi e come essere. Dopo le continue violenze subite nel suo paese, conseguenti alle elezioni politiche del 2012, ha deciso di lasciare i suoi 12 fratelli e venire in Italia a cercare di farsi una “buona vita”. Alioud transita per i vari centri di accoglienza romani, ma lui è uno dei pochi fortunati: gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato.

SENEGAL. In Senegal, durante le elezioni del 2012 che avrebbero portato all’elezione del nuovo governo, il conflitto tra l’esercito e il Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mou-vement des forces démocratiques de Casamance – Mfdc)si è intensificato, causando vittime civili e militari. Per tutto l’anno si sono susseguite manifestazioni, in particolare nella capitale Dakar, per la candidatura del presidente Abdoulaye Wade, per il suo terzo mandato. A giugno dello stesso anno, a Dakar ci sono stati scontri violenti tra la polizia antisommossa e i manifestanti che protestavano contro un disegno di legge che proponeva emendamenti al regolamento delle elezioni presidenziali. A seguito delle manifestazioni il disegno di legge è stato ritirato. Nello stesso mese è stata varata una legge che istituiva la figura dell’osservatore nazionale dei luoghi di privazione della libertà ma, a fine anno, non era stato ancora nominato. (Fonte: rapporto Amnesty 2012).Nel 2014 il conflitto tra l’esercito e le Forze democratiche del Movimento della Casamance si è attenuato e un leader dell’Mfdc ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale ad aprile. Il protrarsi del conflitto armato ha continuato ad avere ripercussioni sulla popolazione civile, causando disoccupazione e sfollamento dai villaggi. Almeno sette uomini sono rimasti uccisi nell’esplosione di mine terrestri ad agosto. (Fonte rapporto Annuale 2015)

Peace.

Peace è un ragazzo di circa 25 anni, alto, magro, sicuro di sé nelle espressioni e nei movimenti. ti guarda con diffidenza. Non risponde alle domande che gli vengono poste, dice di non riuscire a capire, ma quando deve chiedere, per necessità, riesce sempre a farsi comprendere. Peace è in transito a Roma ed è diretto in Germania, è eritreo.

ERITREA. Gli eritrei sono il gruppo più numeroso, dopo i siriani, che attraversa il Mediterraneo. L’Eritrea è governata da 22 anni dallo stesso presidente, Isaias Afewark Da quando ha ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia, nel paese non si sono mai tenute le elezioni. Nel giugno del 2014 è stato pubblicatoun rapporto d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani commesse dal governo eritreo nei confronti del proprio popolo. Dal rapporto emerge che le violazioni sono generalizzate e sistematiche; la tortura è talmente diffusa ed utilizzata che si ritiene sia una politica del governo utilizzata per la punizione di individui percepiti come oppositori e per estorcere confessioni. Vengono compiuti sistematicamente crimini di schiavitù sessuale e tutti i settori dell’economia funzionano basandosi sul presupposto del lavoro forzato. Il governo, nel 2004, ha dato avvio alla politica di sparare a tutti coloro che provano a lasciare il paese irregolarmente, politica non ancora abolita. Tutto ciò ha portato la commissione dell’Onu che ha redatto il rapporto ad affermare che “gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura”. In occasione della pubblicazione del rapporto, tenutosi a Ginevra nel giugno 2014, hanno preso la parola un gruppo di giovani eritrei in rappresentanza del movimento “Eritrea democratica”, questi hanno manifestato il loro sostegno ai lavori svolti dalla commissione e hanno chiesto alle potenze occidentali aiuto e collaborazione abbandonando ogni tipo di rapporto con le forze del sistema dittatoriale rappresentate da: la forza di sicurezza eritrea, forze di polizia eritrea, ministero della giustizia, ministero della difesa, il fonte popolare per democrazia e giustizia (PFDJ- partito unico al potere). (Fonte: rapporto d’inchiesta ONU sulla violazione dei diritti umani in Eritrea, 2014).

Omar.

Omar ha poco più di 20 anni, socializza facilmente e si pone in maniera allegra e disinvolta. È molto bello e fisicamente forte, gli piace la musica e giocare a calcetto con chiunque ne abbia voglia, quando il tempo lo consente. Vuole studiare, vorrebbe diventare un ingegnere. È fratello di una ragazza di cui parla spesso e che descrive come “bellissima e silenziosa”, è figlio, è amico e pretende di essere cittadino del mondo. Omar è anche afgano.

AFGHANISTAN. L’Afghanistan è un paese in guerra ormai da più di trent’anni, a partire dagli anni della guerra fredda, quando ha subito l’invasione bellica, prima sovietica e poi americana, fino ad arrivare alle guerriglie interne che nel 1996 hanno portato i talebani al potere. Seguono anni di continue guerriglie tra le varie fazioni interne del paese e dei paesi limitrofi che per diversi interessi economici e di potere hanno coinvolto anche diverse potenze tra cui gli Stati Uniti. Questo, e tanto altro, portò all’attentato dell’11 Settembre 2001. Nell’ottobre 2001 le forze americane, con ripetuti interventi militari, rovesciarono il regime talebano. In seguito agli accordi di Bonn del 5 dicembre 2001, che tracciarono il futuro politico dell’Afghanistan creando la forza multinazionale ISAF, International Security Assistance Force sotto il controllo della NATO dal 2003, fu istituito un governo provvisorio con a capo Hamid Karzai che, con l’aperto sostegno di Washington, venne eletto presidente nell’ottobre 2004. Ad eccezione di Kabul, il resto del Paese rimase in mano ai talebani che andarono conquistando sempre più territori fino ad arrivare nel 2009 a controllare tre quarti del paese ed a circondare Kabul. Nell’agosto del 2009 si sono tenute le elezioni che hanno visto come vincitore il leader supportato dalle potenze occidentali, Hamid Karzai. Nel Dicembre 2014 finisce formalmente la missione ISAF, ma gli accordi tra Nato ed Usa prevedono una costante presenza di forze occidentali che hanno il fine di assicurare “assistenza, consulenza e formazione” alla popolazione civile. A questo scenario deve aggiungersi la sempre maggiore e intensa presenza, in Afghanistan, del gruppo Stato Islamico in perenne contrasto con i talebani guidati da Haqqani Jalaluddin che, a sua volta, mira a rovesciare il governo di Kabul.

Il trentennale conflitto in Afghanistan ha fatto sì che intere generazioni siano cresciute nel Paese senza aver mai conosciuto la pace e dovendo fronteggiare giornalmente gli effetti sociali, psicologici, economici e persino fisici dei conflitti, passati e presenti. Un recente studio, basato sulle interviste effettuate da Oxfam a 700 afghani, ha dimostrato come circa due individui su cinque abbiano subito la distruzione della loro casa, un quarto quello delle loro terre, uno su tre sia stato derubato durante il conflitto. Un terzo della popolazione ha dovuto abbandonare la propria casa, di questi il 41 % rappresenta profughi interni. Il 13 % degli intervistati ha riferito di essere stato arrestato e il 21% di aver subito torture. Le condizioni di vita della popolazione, già critiche prima della guerra, sono peggiorate a causa della crisi umanitaria causata dal conflitto. Contrariamente a quanto viene propagandato in Occidente e agli sforzi compiuti, il rispetto dei diritti umani rimane un’utopia per molti afghani. Fatta eccezione per la capitale Kabul, la situazione non si discosta da quella esistente sotto i talebani e le violenze contro i civili, in particolare contro le donne, continuano indiscriminate. (Fonte: Istituto di ricerche internazionali – archivio Disarmo).

Questi sono solo tre esempi, di tre persone, provenienti da tre paesi diversi dove non vengono garantiti e tutelati i diritti umani, propri dell’uomo in quanto persona. Tutti noi siamo chiamati ad affrontare la questione, queste personearrivano sulle nostre coste perché non hanno scelta, perché nel proprio paese di origine sono costrette a sopravvivere e ad essere vittime di costanti soprusi, ingiustizie, violenze che non possiamo più far finta di ignorare. Persone che provengono dal Libano, dalla Giordania, dalla Somalia, dalla Siria.

Amnesty International invita l’Europa a chiedere agli stati membri di cooperare efficacemente per garantire al più alto numero possibile di rifugiati di accedere alla protezione internazionale attraverso canali legali e sicuri, tra cui il reinsediamento. Queste richieste sono parte dei contenuti della campagna SOS EuropeSono migliaia le persone che hanno ritrovato la libertà, hanno evitato l’esecuzione di una condanna a morte, hanno ottenuto l’asilo politico, hanno cessato di essere torturate grazie all’azione di Amnesty International. Grazie alle continue denunce di Amnesty International la comunità internazionale ha preso coscienza della diffusione di determinate violazioni di diritti umani e delle sempre maggiori implicazioni derivanti, per la popolazione civile, dai conflitti armati. Vi invito a prendere visione delle tante campagne lanciate da Amnesty International e dei tanti appelli che possono essere sottoscritti su www.amnesty.it. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e solidarietà sociale possiamo pensare di raggiungere risultati concreti.

di Laura Ferrara

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