Sembra impossibile ma…  L’amore ai tempi della LUISS.   

Sembra impossibile ma… L’amore ai tempi della LUISS.  

Andrea e Dario sono due papà. Semplicemente due papà; come tanti: come il mio, come il tuo. Due papà che si amano, da tanto, eh…da trent’anni! Da quando erano studenti LUISS, proprio come te. Come Te che in questo momento sarai innamorato della tua compagna di corso, oppure come Te che “eh però il biondino del quinto anno, canale B, non è niente male”. Innamorati!

Ma poi, mi chiedo, quante etichette diamo all’amore? Eppure se non fossimo capaci di esprimerci verbalmente tutte queste distinzioni non le faremmo mica. Ebbene, oggi non le faremo: uno è Andrea, l’altro è Dario e questa è la loro famiglia (quella ex 29 Cost., per intenderci).

Salve Andrea e Dario; presentiamoci: chi siete e da chi è composta la vostra famiglia? Parlateci di voi.

Siamo una famiglia composta da 2 papà, 3 bambini: Artemisia, Jacopo e Cloe, 4 gatti e una tartaruga zoppa. Io e Dario ci siamo conosciuti all’università esattamente 30 anni fa. Pensate, eravamo studenti LUISS di Scienze Politiche, praticamente la generazione che aveva occupato la Facoltà di Scienze Politiche quando la gestione del momento aveva pensato di chiuderla. Ci siamo innamorati follemente ma non esistevano negli anni ’80 modelli che aiutassero a capire cosa significasse amarci. Piano piano abbiamo dato un nome al nostro amore, e abbiamo dovuto cercare di costruire “Noi”. Non è stato facile: un cammino lento, fatto di tanti anni di nascondimento e chiusura solo in noi stessi. Intorno al 2000 abbiamo iniziato un percorso graduale di “rivelazione”: per molti amici e parenti è stata una liberazione perché avevano già capito di noi e aspettavano che fossimo pronti a rivelarci.

Quando e come è nato in voi il desiderio di diventare genitori?

Nel 2007 abbiamo iniziato ad interrogarci su cosa volessimo veramente. E’ emerso il desiderio di essere famiglia: è iniziato un lungo percorso di autoanalisi, di confronto per capire se il desiderio avesse radici profonde e se avessimo le spalle sufficientemente larghe per realizzare il nostro desiderio. Così, nel 2009 siamo volati a Toronto, in Canada, per sposarci; ci sentivamo già sposati, in realtà, ma sentivamo di aver bisogno di un momento simbolico per celebrare con un momento di festa la nostra vita insieme.

Molti non pensano che attualmente una coppia LGBT ha come unico modo per proteggersi quello di fare testamento e pensare, quindi, a quando la vita insieme non ci sarà più. Invece volevamo quello che tutti gli altri fanno naturalmente: festeggiare. Tornati in Italia abbiamo quindi deciso di intraprendere il percorso per diventare genitori. Lo abbiamo fatto rivolgendoci ancora una volta al Canada, che così generosamente ci aveva accolto. Nel 2012 è arrivata, come un sogno, Artemisia, la nostra prima figlia, e dopo poco più di un anno e mezzo, i gemelli Jacopo e Cloe. La nostra famiglia era al completo.

Cosa volete rispondere a tutti coloro che sostengono che non siate famiglia?

Oscar Wilde scriveva: “Le cose vere della vita non si studiano, né si imparano: si incontrano”. Purtroppo quando si rimane confinati al livello dello scontro ideologico non è possibile altro che creare contrapposizione. Se, invece, si accetta di incontrare l’altro, allora si costruiscono ponti e si arriva alla comprensione di tante cose. L’invito che faccio a tutti è appunto di incontrare le cose, di incontrarci, e di capire che famiglia è il luogo dove due persone si amano, realizzano un progetto comune superiore alla somma delle due individualità, dando vita a un luogo di sostegno reciproco, promessa, speranza. Insomma: un patrimonio di energia e realizzazione che va a beneficio dell’intera società e per questo va protetto come un tesoro.

Come si relazionano i vostri figli con gli altri bambini quando si parla di “famiglia”?

Con molta naturalezza. I nostri figli conoscono la loro storia. Sanno come e dove sono nati. Sanno di avere due papà e che quella è la loro famiglia. Una delle condizioni che ci siamo posti, prima di decidere di intraprendere il nostro percorso, è stata quella di mantenere sempre ferma la coerenza della narrazione nei loro confronti, in ogni occasione e in ogni contesto. Loro sanno perfettamente che la maggior parte dei bambini ha un papà e una mamma, che però alcuni bambini hanno due papà o due mamme, altri un solo papà o una sola mamma, altri hanno la pelle di colore diversa dai loro genitori, altri ancora hanno genitori separati che hanno ricomposto nuove famiglie. E che però tutte sono famiglie e tutte sono luoghi dove ci si vuole bene.

Quanto è stato difficile realizzare quanto avete oggi, considerando tutti i vincoli che il nostro Paese impone alle coppie di fatto?

Molto, e soprattutto dal punto di vista dell’impegno psicologico. E’ stato per noi molto complicato vincere un tabù per cui esiste solo il modello eterosessuale. Questo porta molti di noi a soffrire di quella che si chiama in termini tecnici “omofobia interiorizzata” che, tra le altre cose, ti sussurra malevolmente che “l’omosessualità è sbagliata”, che “una persona omosessuale non può diventare genitore”. Indubbiamente il contesto contribuisce molto.

In Canada, ad esempio, è tutto molto più semplice: famiglie gay, lesbiche o etero non esistono. Nessuno si sognerebbe anche solo di sgranare gli occhi o mettere in dubbio la legittimità di ogni famiglia. Tutto è previsto, tutto è accogliente, inclusivo. Tornando in Italia si sperimenta che tutto va costruito, passo dopo passo. Ma anche che nulla è impossibile se si imposta la relazione sull’umanità. La società è in realtà forse disinformata ma naturalmente già pronta ad accettare le “nuove famiglie”. Questo lo sperimentiamo ogni giorno.

Qual è la prima cosa che pensate al vostro ritorno a casa con tutta la famiglia riunita?

A quello che pensano credo tutte le famiglie: che è bello tornare a casa e vedere scorrazzare e ridere i tuoi figli: preparare la cena, guardare un po’ di cartoni insieme, leggere una favola, recitare le preghierine, svegliarsi 100 volte nel corso della notte per raccogliere ciucci, dare da bere, consolarli se hanno fatto un brutto sogno.

Qual è la cosa più bella che vi viene in mente pensando alla vostra famiglia?

La prima: quando nel 2010, in un negozio in Arizona, ho visto appeso un vestitino rosa, di una bambina degli anni ’50. L’ho preso tra le mani e ho avuto la certezza che avremmo avuto una bambina e che la avremmo chiamata Artemisia. Mi è apparsa, non ci crederete, così com’è ora. E ho saputo in quel momento che si trovava in un luogo e aspettava noi per venire al mondo. L’altra che, alla fine, siamo riusciti a “vivere” e non solo a “sopravvivere”, destino che purtroppo ancora oggi tocca molti gay, lesbiche e trans, costretti a prevedere esistenze incanalate su binari unici, senza poter spaziare, come ogni altra persona, verso ogni dimensione progettuale.

Siete i fautori di “Cammini di Speranza” e “Nuova proposta” – associazioni a carattere religioso che hanno una posizione riguardo l’omosessualità del tutto diversa dalle alte gerarchie vaticane – com’è il vostro rapporto con la religione?

Più che con la religione, il nostro rapporto è con la fede: ed è ora sereno. Non lo è sempre stato. Fondamentali sono stati degli incontri con dei sacerdoti illuminati che ci hanno fatto gustare nuovamente il bello dell’incontro con l’altro “senza giudizio”. Fondamentale è stata anche l’esperienza con Nuova Proposta e quella con Cammini di Speranza, la associazione nazionale delle persone LGBT cristiane. Le nostre sono delle locande dove le persone possono sostare per il tempo necessario a riconciliare la propria fede con la propria omosessualità o transessualità. Il nostro obiettivo non è di sostituirci alle altre esperienze di fede, ma di riempire dei vuoti. La Chiesa deve capire che deve avere braccia così larghe da abbracciare ogni persona e dare a ognuno nutrimento spirituale e prospettiva di crescita “personalizzati”, senza “taglie uniche.

Nel mondo cattolico, purtroppo, soprattutto in alcune frange, c’è ancora tanta “lotta ideologica” sul tema dell’omosessualità e delle famiglie omosessuali. Parole sono terribili e senza appello: credo non si consideri l’impatto devastante che possano avere su un adolescente gay credente. Il problema principale, però, è la non esistenza, in pratica, dell’omosessualità negli ambiti pastorali. Cosa accade ad un adolescente che frequenta la parrocchia e si scopre omosessuale? Al più può confidarsi con il suo parroco o assistente spirituale che, nella maggior parte dei casi, lo conforta ma gli consiglia di tenere riservata l’informazione (questo è successo a me). Un ragazzo gay non ha la possibilità di vivere con leggerezza, come i suoi coetanei, fasi importantissime per la formazione dell’identità come innamorarsi, condividere l’innamoramento con i propri amici, confidarsi, scherzarci su, piangere sulla spalla di un amico, confrontarsi. Credo l’impatto di tutto questo sia sottovalutato seriamente, con questo approccio condanniamo tanti ragazzi al silenzio, all’autoemarginazione e al bullismo omofobico.

Un appello a tutti gli studenti della LUISS che leggeranno questa intervista?

Innanzitutto di godervi questi anni, che per noi sono stati veramente “anni d’oro”! E poi di portarvi a casa un concetto che per me è fondamentale: è solo dall’incontro tra diversità che nasce qualcosa di nuovo. Finché rimaniamo tra simili, confrontandoci con idee simili, guardando con occhi simili, potremo al massimo “oliare” o raffinare un processo e migliorarlo. Non generemo mai innovazione. Il passo per il cambiamento è l’integrazione e l’accettazione del diverso, che non risulterà più ai nostri occhi come “diversità” bensì come “alternativa”. Andrea e Dario ci hanno regalato risposte lineari, precise e necessarie, oggi come oggi, per avere un altro spunto di riflessione in merito ad una questione che risulta ancora in bilico e oggetto di non poche discriminazioni nella nostra società.

 

«A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,

ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono.»

José Saramago, Cecità

 

A cura di Flavio Di Fusco & Benedetta Barone

 

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