Dal 4 marzo, data delle elezioni nazionali, ad oggi, larga parte dell’establishment italiano, nonché europeo, ha mostrato la propria preoccupazione per la prospettiva di un governo M5S-Lega, rispettivamente la prima e la terza forza politica italiana. Il timore è giustificato dalla consapevolezza che si tratterebbe di un governo fortemente antieuropeista(e più in generale antisistema), in quanto composto da due schieramenti che si sono caratterizzati negli ultimi anni, tra le altre cose, per le loro battaglie no euro e, almeno per quanto concerne la Lega, contro la stessa permanenza nell’UE. Quest’ultima, in realtà, è la forza politica che spaventa realmente larga parte del mondo intellettuale, politico ed europeo cosiddetto “di sistema”. I grillini, infatti, specialmente da quando Di Maio è divenuto il loro capo politico nonché candidato premier, hanno dato vita ad una sorta di svolta moderata, mostrandosi ora favorevoli all’euro, ma intenzionati ad una semplice revisione dei trattati, percorrendo la strada del referendum sulla moneta unica solo in via eventuale.
Tale situazione ha portato dunque molti personaggi pubblici, dal filosofo Cacciari al deputato Democratico Francesco Boccia, dal costituzionalista Zagrebelsky allo storico d’arte Tomaso Montanari, ad avanzare la proposta apparentemente più ovvia: formare un governo M5S-PD. L’idea pecca però d’ingenuità, in quanto spinta esclusivamente dalla paura dei leghisti ed è dunque sprovvista di una visione di futuro, poiché non si ragiona in alcun modo sugli effetti di un governo del genere. Ebbene, analizziamo gli elettorati degli schieramenti suddetti.
Gli elettori democratici hanno deciso di votate il PD dopo un’intera campagna renziana segnata dalla propaganda anti-M5S, di conseguenza è facile intuire la loro posizione agguerrita verso i grillini, visti come degli incapaci populisti. Per quanto concerne i grillini stessi, il Movimento ha trascorso anni ad attaccare duramente il PD, ancor prima che Renzi divenisse segretario, trattandolo come la stampella di Berlusconi (si pensi all’appellativo PD meno L, di epoca bersaniana). Da ciò si deduce che entrambi gli elettorati sarebbero quantomeno scettici su una loro alleanza. Si potrebbe citare il precedente dell’asse PD-Forza Italia (governo Letta) per contrastare la mia tesi, ma considerando i loro recenti risultati elettorali pietosi non si tratta certo di un buon esempio di larghe intese.
Passando ai programmi, è difficile trovare punti in comune, cosicché democratici e grillini potrebbero forse accordarsi su giustizia ed immigrazione, ma su economia, lavoro, globalizzazione, salute, Europa e più in generale esteri, così come su molti altri punti (persino l’ecologia, pensiate al referendum sulle trivelle), le divergenze sono tali che creerebbero solo immobilismo (e dunque mal governo). Dall’immobilismo deriverebbe un elettorato sempre più scontento, a vantaggio della tanto temuta Lega, partito che si alimenta infatti della rabbia popolare. Insomma, un governo PD-M5S non farebbe altro che rimandare la svolta anti-sistema dell’Italia, giungendo alle prossime elezioni con Salvini magari a capo della prima forza politica del paese, saldamente in testa alla coalizione di centro-destra. Questa prospettiva è certamente più preoccupante di quella M5S-Lega. La realtà, in definitiva, è che bisogna mandare Salvini e Di Maio al governo (dove peraltro il secondo conterebbe molto più del primo, in forza del risultato elettorale del 4 marzo) contando sulle loro molteplici divergenze, nonché sulla loro palese incapacità, elementi da cui deriverebbe un mal governo che si tradurrebbe poi in un pentimento da parte dell’elettorato, vittima delle loro politiche sconsiderate. Questo, inoltre, potrebbe paradossalmente tornare su delle posizioni moderate e stavolta, magari, persino fidarsi di coloro che avanzano proposte impopolari, ma serie.
A cura di Matteo Bucciarelli