1988, Corea del Sud. Sul prato verde dieci schegge arancioni impazzite strapazzano dieci macchie azzurre sbiadite. Ripartenze, dribbling, tunnel, gioco di prima, l’Oland… no, non è l’Olanda quella arancione. Quelli azzurri sono gli italiani, sì, ma gli altri sono zambiani. È lo Zambia, un semplice Stato dell’Africa centro-meridionale, che il 19 settembre del 1988, il giorno di San Gennaro, ci sta strapazzando alle Olimpiadi coreane.
Kalusha Bwalya, ala velocissima del Psv Eindhoven, ha appena finito di danzare dopo aver segnato il 4-0 con cui veniamo massacrati, ironia della sorte, proprio in Corea: dopo l’eliminazione subìta con la Corea del Nord nel 1966 ai Mondiali in Inghilterra, le due nazioni asiatiche sono di nuovo sinonimo di disfatta del calcio azzurro. Kalusha danza, insieme ai suoi compagni, pensando che da qui in poi, magari, tutto andrà bene: crede che il calcio africano finalmente riuscirà ad emergere, con lo Zambia a tirarne le fila e che magari saranno proprio loro la prima squadra africana a passare i quarti ad USA ’94, per poi magari provare a vincere il torneo, chi lo sa. Kalusha danza, vivendo felice ed ignaro la favola di un Paese intero. Kalusha danza, senza nemmeno immaginare l’epilogo che il crudele dio del calcio avrebbe riservato loro.
Kalusha lo ritroviamo cinque anni dopo, a giocarsi la qualificazione ai mondiali americani. Deve affrontare il Senegal, nel gironcino a tre insieme al Marocco. Lo Zambia delle quattro reti all’Italia è cresciuto ancor di più, ed è una seria candidata a dominare quel girone. Kalusha raggiungerà la squadra direttamente a Dakar, per una questione meramente logistica, visto che lui gioca in Europa. Gli altri partono da Lusaka, con tre scali: Brazzaville, Libreville e Abidjian, prima di arrivare a Dakar. Il DHC-5 è un aereo solido, per gli standard africani. Forse ha qualche problemino, ma finché vola…. eppure anche il pilota ha qualche problemino. È stanco. Non si è riposato, dopo aver portato la squadra dalle Mauritius a Lusaka. Ma a Brazzaville ci arriva, l’aereo va, è tutto a posto. Forse c’è un problema al motore, ma comunque giunge a Libreville. Scalo, rifornimento e si parte, direzione Abdjian. Dopo 400 metri, il motore sinistro, quello del problemino, va in panne. Il pilota è stanco. Siamo sull’Atlantico, l’oceano quella sera è calmo. La stanchezza, il panico, di nuovo la stanchezza. Il pilota stacca pure il motore destro. Il DHC-5 si inabissa a 500 metri dalla costa di Libreville.
Nessun sopravvissuto.
The show must go on, dicono gli americani.
Poco importa che una generazione intera, la migliore generazione di calcio zambiana, sia stata distrutta. Le qualificazioni devono continuare. Kalusha è allo stadio, dove si è consumato il funerale dei suoi compagni. In mezzo alla folla oceanica, sa che tra pochi mesi, dove sono poggiate le bare dei suoi compagni, dovrà portare praticamente da solo lo Zambia ai mondiali. In una favola a lieto fine, io vi racconterei di come Kalusha ci sia riuscito. Ma la vita non è una favola, tantomeno il calcio: in Marocco basta un punto per andare ai mondiali, ma il nordafricano Abdeslam Laghrissi non è d’accordo, e con un colpo di testa al 62esimo manda il suo Marocco ai mondiali, non lo Zambia.
Non è passato nemmeno un anno, e dopo la tragedia, dopo l’eliminazione lacerante dalle qualificazioni mondiali, Kalusha trova la forza di mandare lo Zambia in finale di Coppa d’Africa. Ma ancora una volta, il dio del calcio, che è immensamente crudele, strozza in gola il grido di un popolo intero. Lo Zambia perde anche in finale di Coppa d’Africa. Il dolore è immenso, tre tragedie di fila piegano Kalusha, che si ritira dalla nazionale.
Lo Zambia cade nell’oblio del calcio.
2010.
Un bel francese abbronzato, capelli lunghi e faccia da surfista si presenta nell’ufficio di una nostra conoscenza. È Herve Renard, che riceve da Kalusha la guida della panchina della nazionale zambiana, il quale nel frattempo è diventato presidente, e ha portato i Chipolopolo (proiettili di rame) a giocare la prima Coppa d’Africa dal 1994. Lo Zambia è palesemente un outsider, le nazionali quotate sono ben altre. Ma il nostro Renard, che nomen omen è un tipo abbastanza furbo (Renard vuol dire volpe in francese, N.d.A.) fa giocare questi ragazzi come delle ire di Dio. In campo sembrano essere trasformati, dalla timida squadra che si è qualificata quasi per sbaglio non c’è ricordo. Non hanno alzato la cresta dopo aver battuto nel girone il Senegal – una delle favorite – non si sono esaltati neanche dopo aver conquistato il primo posto nel proprio gruppo, o dopo aver massacrato il Sudan ai quarti. La semifinale con il Ghana, che sembrava un ostacolo insormontabile, è stata giocata con cuore e talento. In campo sono undici, ma sembrano il doppio, sembrano ventidue. O lo sono, in ventidue?
Questa edizione è stata giocata in due Paesi. Uno è la Guinea Equatoriale, l’altro è il Gabon. Indovinate qual è la capitale del Gabon? Libreville, maledetta Libreville. Ma si può sconfiggere il crudele dio del calcio? Ha tolto i figli migliori del calcio zambiano, ha ucciso due volte Kalusha, ma alla terza volta no. La terza volta il crudele dio del calcio non può più opporsi al lieto fine.
Questa storia si conclude a Libreville il 12 febbraio 2012, con Stophira Sunzu sul dischetto. Il giovane Sunzu, numero 13 stampato sulle spalle, arriva a calciare da quei fatidici undici metri dopo una partita tiratissima, dove lo Zambia ha giocato alla pari della squadra più forte del torneo. Sunzu ha la faccia emozionata di un intero Paese che sopravvive da sempre grazie al rame. Il baldanzoso numero 13 arriva davanti al portiere ivoriano, dopo un’estenuante serie di rigori che costringe i calciatori zambiani a ricacciare ripetutamente in gola l’urlo liberatorio che il loro Paese trattiene dal 1993. Stophira Sunzu va a battere il calcio di rigore cantando. Finalmente è arrivato il momento. Finalmente, il destino solitamente avverso a questa nazionale si fa da parte. Finalmente il dio del calcio concede il lieto fine: Sunzu segna. Lo Zambia è campione d’Africa, a Libreville, dove nel 1993 la sua nazionale venne inghiottita per sempre dalle placide acque dell’Oceano Atlantico. È la vittoria di quei diciotto calciatori mai dimenticati dal popolo zambiano, quello stesso popolo che dopo diciannove interminabili anni, proprio a Libreville, la maledetta Libreville, è riuscito ad asciugarsi finalmente le lacrime ed è tornato a cantare e sorridere.
A cura di Margherita Pucillo