Terremoto in Cina: catastrofe o assestamento?

Terremoto in Cina: catastrofe o assestamento?

Lunedì  24 agosto scorso si è aperto con uno scenario apocalittico inimmaginabile. I listini di Shanghai segnano meno 8,49 %, scatenando un effetto domino sulle restanti piazze asiatiche, del vecchio continente e del colosso a stelle e strisce: la peggior seduta borsistica mondiale dal 2008. Un altro Lunedì Nero da dimenticare, e stavolta partito dal dragone cinese, traino dell’economia mondiale degli ultimi tre decenni.

Sulle testate mondiali e sulla rete dilagano informazioni poco rassicuranti. Le previsioni di crescita del PIL cinese sono ridimensionate di tre punti percentuali, dal 10 al 7%, ma qualcuno presagisce che non si supererà il 4; il prezzo delle  materie prime è in caduta libera; l’export del gigante asiatico in crisi profonda; la produzione industriale rallentata ai minimi degli ultimi sei anni: i consumi ristagnano.  E come se non bastasse, l’uomo più ricco della Cina ha perso 3,2 miliardi di dollari in meno di 24 ore. Un resoconto che a molti ha rievocato la bancarotta di Lehman Brothers, evento che, secondo il ben noto postulato fisico della dilatazione del tempo, in un mondo come il nostro che viaggia alla velocità della luce, sembrava ormai vecchio quanto i dinosauri.

Gli investitori stranieri spaventati sono perciò fuggiti da Shangai e sono corsi ai ripari su Yen e oro. È il panico, o meglio il panic selling.

Già tra giugno e luglio la bolla era sul punto di scoppiare, i prezzi dei titoli incominciavano a oscillare e i capitali esteri a battere la loro ritirata.

In mezzo c’è stata la svalutazione dello Yuan, in tre ondate: da Pechino giurano di averlo fatto nel tentativo di stabilizzare i mercati e non per rendere ancora e ancora più economici i prodotti made in china. Un tentativo che si è rivelato un errore: un paese che vuole passare dalla concorrenza sul prezzo a quella sul prodotto non può mantenere la domanda estera, peraltro debole, debolissima, attraverso il deprezzamento della moneta. Il governo cinese in un revival degli anni ottanta ha promesso liberalizzazioni e dato, invece, uno Yuan indebolito. Gli investitori hanno presto abbandonato la nave.

La risposta del governo cinese, comunque, dopo un primo momento, o forse anche un primo minuto, di confusione è arrivata. La People’s Bank of China ha iniettato 150 miliardi di Yuan (23,4 miliardi di dollari) in soccorso del sistema bancario, tagliato tassi di interesse (-0,25%) e i coefficienti di riserva obbligatoria (-0,50%), eliminato il tetto massimo sui depositi, liberando così ulteriore liquidità. Anche il Mario Draghi della Cina, Zhou Xiaochuan, sembra aver preso la strada del Quantitative Easing. Questo, più la promessa degli Usa, che sembrano essere finalmente entrati in un’ottica di collaborazione globale, di non rafforzare ulteriormente il dollaro a settembre, come era invece atteso attraverso un rialzo dei tassi di interesse, ha ridato respiro alle borse mondiali, dopo 5 sedute negative.

Pericolo sventato, sembra, nel fantastico mondo borsistico, il problema resta nell’economia reale: nelle campagne abitate da oltre un miliardo e mezzo di poveri, nelle città dove la nuova classe media accumula risparmi e non consuma perché vede davanti un futuro incerto,  nel cuore di Pechino, nella sede del Partito Comunista Cinese, che continua ad esercitare un governo essenzialmente autoritario e dirigista, che tarda a riformare il lavoro, liberalizzare i mercati, investire nel welfare.

Nessuno dubita della capacità della Cina di governare, di riprendersi, di riprendere le redini dell’economia mondiale, ma la ricetta per la crescita non può essere la stessa che ci raccontava Marco Polo. La New Silk Road deve passare da riforme strutturali che potranno guidare la transizione della Cina dal capitalismo socialista in corsa, basato su export e investimenti statali, a quella che chiamano la nuova normalità cinese, che la porterà a una crescita più lenta ma più stabile, e soprattutto a una crescita interna. Finalmente la Cina potrà essere vista a tutti gli effetti come partner economico per il mondo occidentale e non più come un pericolo.

Anche questa, dunque, come  ogni crisi, porta con sé molte opportunità: il cambiamento inevitabilmente avverrà e sta già avvenendo a livello economico e sociale, ora va ufficializzato e aiutato a livello politico. A ottobre verrà svelato il piano economico cinese per i prossimi cinque anni, non ci resta che sperare che il governo di Pechino cavalchi queste opportunità e prenda i provvedimenti necessari, che saranno decisivi per l’economia mondiale tutta, sempre più una e interconnessa. Siamo di fronte forse a  uno di quei momenti che forgiano le epoche, ma non possiamo ancora rendercene conto perché, con parole rubate, “la storia acquista la sua realtà appena più tardi, quando essa è già passata, e le connessioni generali, istituite e scritte anni dopo negli annali, conferiscono a un evento la sua portata e il suo ruolo”.

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