Si sono concluse da poco più di due settimane le lunghe e per molti versi “storiche” elezioni presidenziali americane. Tanti personaggi si sono susseguiti sotto i riflettori, tanti protagonisti sono emersi, tante problematiche sono state portate alla luce, e come non mai i social media hanno affiancato, se non anche scavalcato, quelli tradizionali, soprattutto grazie alla quanto mai importante presenza dei millenials.
E dopo gli aspri dibattiti presidenziali tra la nominee democratica Hillary Clinton e quella repubblicana Donald Trump, con i media che fino agli ultimi giorni prima del voto hanno dato l’ex first lady in leggero vantaggio, la notte dell’8 novembre ha cambiato tutte le carte in tavola e, con esse, la storia degli Stati Uniti perché, nonostante Hillary Clinton abbia prevalso nel voto popolare, Donald Trump ha vinto con grande distacco nel conteggio dell’Electoral College, diventando così il prossimo presidente degli Stati Uniti.
Una vittoria sbalorditiva, che ha lasciato a bocca aperta quasi tutti, in gran parte convinti della vittoria di Hillary Clinton, unanimemente proclamata vincitrice da tutti gli exit polls ma subito dopo, come era lecito aspettarsi, grandi preoccupazioni sono sorte, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, sulla futura amministrazione di Trump.
Per quale motivo? Cosa ha determinato l’errore di tutti i singoli pollsters statunitensi?
Di sicuro la risposta a questi interrogativi si trova non solo nella personalità multiforme e certamente complessa di Donald Trump, ma anche nella situazione politica, economica e sociale degli Stati Uniti di questi ultimi anni.
Da un lato c’è Donald J. Trump, classe 1946, figlio del magnate Fred Trump, uno dei più importanti costruttori immobiliari dell’America del dopoguerra, e di Mary Trump. Di origini tedesche, Trump eredita nel 1971 le redini dell’azienda di famiglia, la Trump Organization.
Da allora, il giovane imprenditore gestisce ed espande l’impero del padre con fortune alterne, espandendosi ad hotel e casinò, vari dei quali successivamente dovranno dichiarare bancarotta. In ogni modo, il tycoon newyorkese riesce a totalizzare un patrimonio aziendale di poco meno di un bilione di dollari.
Il successo gli arriderà però con l’ingresso nel mondo della TV, dove dirigerà e condurrà lo spettacolo della NBC “The Apprentice”, incentrato sulle avventure di alcuni giovani in competizione per un posto di management di alto livello in una delle sue stesse aziende. Questo gli porterà una notevole fama a livello nazionale.
Donald si avvicinerà, già a partire dagli anni ’80, alla politica, valutando varie volte una probabile corsa per la Presidenza degli Stati Uniti. Comincerà così a esporre le sue idee politiche, che gli porteranno consensi ma anche non poche critiche. Temi centrali saranno l’immigrazione, la tassazione, e l’assistenza sanitaria.
A partire dal secondo mandato di Barack Obama, Trump comincia a guadagnare sempre più visibilità politica, con il suo stile sprezzante e provocatorio, ma anche cangiante ed enigmatico. Dal 2011 sarà una voce preminente nella disputa sul reale luogo di nascita del presidente, che contesta essere alle Hawaii, fino alla controversa ipotesi che Obama sia in realtà musulmano. Frattanto, il tycoon comincia a valutare l’ipotesi di una candidatura alle presidenziali nella fila del Partito Repubblicano, fino a quando il 16 giugno 2015 annuncia ufficialmente la corsa per la Casa Bianca.
Da allora, Trump ha raccolto decine di migliaia di persone ai suoi rallies in ogni Stato americano, focalizzando la sua campagna sui temi dell’immigrazione, del sistema di tassazione e della sanità e, più tardi, anche sulla politica estera.
Il primo tema sarà anche quello che, complice lo stile vulcanico e “non correct” dell’imprenditore, gli attirerà molteplici critiche, a livello politico e popolare, con la proposta di espellere tutti gli immigrati residenti illegalmente nella nazione, in concomitanza con la costruzione di un muro al confine col Messico. Altra proposta è poi quella del bando di tutti i musulmani non originariamente residenti negli Stati Uniti, che poi attenuerà in base alla loro eventuale provenienza da Paesi legati al terrorismo.
Secondo tema portante della rivoluzionaria campagna di Trump è quello della tassazione, per la quale Trump propone vari tagli, l’abolizione delle esenzioni e facilitazioni alla classe media e meno abbiente, e una nuova riforma di Wall Street, che liberi le banche e le grandi società dal più stringente controllo statale elaborato con Obama. Anche questo punto porterà molti economisti ad assumere posizioni diffidenti o contrarie, sostenendo che verrebbero favoriti solo i ceti più abbienti e tornerebbero a crescere i rischi di crisi economiche.
Il tema della sanità vede Trump critico dell’ ”ObamaCare”, con la proposta di abolirlo e sostituirlo con un nuovo sistema interstatale, maggiormente basato su bonus assicurativi ai ceti meno abbienti.
Un capitolo a parte potrebbe essere invece la politica estera, dove il magnate newyorkese è rimasto spesso mutevole. In grandi linee, le sue proposte sono quelle di un rafforzamento dei rapporti con la Russia di Putin, incrinati da troppo tempo, con maggiore collaborazione nella lotta all’ISIS, l’abbandono dei grandi trattati commerciali internazionali (TTIP in primis) e un riassestamento in senso “protezionistico” dei rapporti commerciali con la Cina e il Messico, da sempre malvisti da Trump.
Infine, altre proposte che hanno suscitato non pochi dibattiti sono state quelle sulle energie rinnovabili, definite da Trump “inutili e false”, e il riposizionamento statunitense nelle due grandi alleanze militari intercontinentali, con il Giappone e l’Europa, prevedendo l’uscita statunitense da queste in caso di mancato pagamento dei contributi da parte dei Paesi alleati.
E poi c’è l’America, sicuramente diversa da quella di otto anni fa, quando la Grande Recessione aveva gettato nella disperazione milioni di famiglie e grandi colossi dell’industria, per poi espandersi al resto del mondo. L’eredità di Obama qui si fa sentire tutta, con le numerose riforme in primis in campo economico, che si sono poi estese alla sanità, alla scuola, all’immigrazione, e in ultimo a un nuovo approccio in politica estera. L’America di oggi è un’America di nuovo forte, con un PIL in crescita al 3-4%, ma forse non come prima: probabilmente perché varie problematiche storiche non sono state del tutto risolte, e nuovi forti sentimenti sono affiorati prepotentemente nella società.
Varie figure, come detto, hanno contribuito a ciò: in primis vi è il senatore del Vermont Bernie Sanders, che con la sua campagna presidenziale ha coinvolto milioni di giovani nel dibattito politico sulle questioni della lotta alle lobby, dell’assistenza sanitaria universale, della regolamentazione di Wall Street e dei diritti degli immigrati e delle minoranze afroamericana, LGBT ed ispanica. Durante le primarie democratiche, le quali hanno visto l’aspro confronto tra Sanders e Hillary Clinton, mentre iniziava a crescere l’opposizione verso i “lawmakers” di Capitol Hill e i presunti legami di molti di loro con grandi gruppi finanziari, Trump si è fatto rapidamente strada tra i numerosi avversari nelle primarie e dello stesso entourage repubblicano, guadagnando sempre più i consensi della classe bianca operaia e dei non laureati nonché crescenti critiche. Ed è proprio sui temi più rilevanti affrontati dallo stesso Sanders nella sua campagna che si è incentrato il tycoon, per alcuni versi al contrario. È stata certamente fondamentale la sua capacità di fare leva sui sentimenti della pancia dell’elettorato statunitense, rendendolo quanto mai non sottovalutabile e temibile nel momento in cui Hillary Clinton ha vinto, tra varie critiche, la nomination Democratica.
Se da un lato l’ex-first lady ha trionfato sul rivale Sanders alla fine delle primarie, quest’ultimo è stato in grado di scoperchiare un vero e proprio “vaso di Pandora” che ha creato profonde lacerazioni tra i democratici, non uniti attorno alla front-runner.
Bisogna aggiungere poi che Clinton, coinvolta a partire dallo scorso anno nello scandalo delle email risalenti a quando era segretario di Stato, ha visto la sua popolarità, di per sé non elevata tra gli americani, oscillare pericolosamente, mentre Trump si rafforzava. I due candidati sono rimasti comunque fino all’ultimo i due meno amati della storia americana, sebbene un ultimo fattore potrebbe essere stato a sua volta essenziale nel garantire l’inaspettata vittoria di Trump: la non partecipazione al voto di più di metà della popolazione americana, non convinta da nessuna delle due posizioni. In questa frangia sono rientrati per la maggior parte i giovani sotto i 45 anni, le donne laureate, gli ispanici, gli afroamericani e altre minoranze, componenti fondamentali per vincere la presidenza. I rimanenti, invece, hanno votato in gran parte per Trump, che con il suo stile irriverente, la sua natura di outsider senza alcun background politico nonché la promessa di riportare onestà nella politica – liberandola dai grandi poteri e affermando i diritti dei lavoratori -, ha saputo far leva sui bisogni più impellenti e sentiti attualmente da molti Americani.
Rimangono tutte da vedere le conseguenze delle politiche della prossima presidenza, ma una cosa appare ormai chiara: come titolava uno dei maggiori tabloid americani qualche settimana fa, con colui che nel 2008 era definito “l’uomo della speranza” – Barack Obama -, se ne va un’America liberale e progressista, forse una delle migliori degli ultimi 60 anni: quella che verrà sembra invece molto più nebulosa e incerta sul ruolo che vuole rivestire in futuro.
A cura di Pasquale Candela