Il PARTENARIATO TRANSATLANTICO PER IL COMMERCIO E GLI INVESTIMENTI (TransatlanticTrade and Investment Partnership, TTIP) è un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziato dal 2013 tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America.
Le truppe si schierano per LA CAMPAGNA dell’anno. Da una parte c’è chi dice NO a tale accordo, che favorirebbe gli Stati Uniti e soprattutto le multinazionali di entrambi le coste,e avrebbe da noi costi enormi sul fronte del lavoro, salute ed ambiente.
Sono i sindacati europei, i nuovi no global con siti agguerriti, poi la sinistra radicale e decine di organizzazioni di consumatori ad aver raccolto oltre un milione di firme in tutta Europa per bloccare il mega negoziato e a fare opposizione. Sullo stesso fronte, ma agitando armi diverse come il nazionalismo, stanno Marine Le Pen e l’estrema destra europea, il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Matteo Salvini.
Ma anche a livello di politici europei non esiste unità totale. La Francia, con la sua tradizionale anima antiamericana, non vede di buon occhio le conseguenze del trattato di libero scambio. La Germania di Angela Merkel mostra segni di preoccupazione e gli economisti si arrovellano per capire se la sua industria ne trarrà reale beneficio. Più ottimisti inglesi, spagnoli e polacchi, questi ultimi veri entusiasti del libero mercato.
Determinatissimi, invece, i grandi manager di entrambe le sponde dell’Atlantico e, in genere, gli americani, in quanto ricercano uno schieramento occidentale da contrapporre a Cina e Russia.
E L’ITALIA? Il premier Renzi sostiene che un accordo TTIP sia “una priorità assoluta”. Suo portabandiera è il viceministro dello Sviluppo Economico Carlo Candela, secondo cui “bisogna fare in fretta perché le presidenziali Usa e soprattutto la trattativa di Washington per un accordo commerciale transpacifico con alcuni Paesi asiatici potrebbero tagliarci fuori”.
In mezzo al campo di battaglia 800 milioni di cittadini e consumatori ignari. Sentono parlare di TTIP, ricordando il Gatt e il Wto, sigle da farsi venire l’orticaria, e si chiedono: a noi cosa cambia?
L’obiettivo dichiarato è quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie. Ciò renderebbe possibile la libera circolazione delle merci, faciliterebbe il flusso degli investimenti e l’accesso ai rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici.
Se il progetto andasse in porto, verrebbe creata la più grande area di libero scambio esistente, poiché UE eUSA rappresentano circa la metà del PIL mondiale ed un terzo del mercato globale.
L’accordo potrebbe essere esteso ad altri Paesi con cui le due controparti hanno già in vigore accordi di libero scambio, in particolare i Paesi membri della North American Free Trade Agreement (NAFTA) e dell’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA).
L’accordo è costituito da 24 capitoli suddivisi in 3 parti, le cui direttive di negoziato sono state declassificate su impulso italiano e rese pubbliche dalla Commissione Europea nell’ottobre del 2014.
Il TTIP punta ad un accordo che DOVREBBE liberalizzare un terzo del commercio globale e gli ideatori sostengono che creerebbe milioni di nuovi e stipendiati posti di lavoro. Con dazi tra Stati Uniti ed Unione Europea già bassi, lo UNITED KINGDOM’S CENTRE FOR ECONOMIC POLICY RESEARCH stima che l’80% dei potenziali vantaggi economici derivanti dal trattato dipendano dal ridurre i conflitti legislativi tra UE e USA, spaziando dalla sicurezza alimentare ai componenti per automobili. Ciò dovrebbe assicurare che USA e UE rimangano i principali esportatori, garantendo agli investitori internazionali la sicurezza nell’investire in tale area del mondo.
La Commissione Europea sostiene che il TTIP dovrebbe incrementare l’economia del nostro continente di 120 miliardi di euro, quella statunitense di circa 90 miliardi e quella mondiale di 100 miliardi di euro.
In un articolo pubblicato sul THE GUARDIAN il 15 luglio del 2013, Dean Baker del UnitedStates’ Center for Economic and Policy Research osservò che l’accordo punterebbe a riscrivere le regolamentazioni nazionali riguardo al fracking, agli OGM e alle leggi finanziarie, vincolando anche le leggi sul diritto d’autore. Tuttavia, entro il 2027, applicando questo “guadagno” al cittadino medio, si otterrebbe un ipotetico aumento di stipendio di circa 50$ all’anno (45-46 euro).
Numerosissimi e pericolosi sono i rischi che possono derivare da questo accordo.
Un numero di lavoratori stimato fra i 460 e 600 mila in Europa (lo 0,7% della forza lavoro) dovrà cambiare lavoro per effetto dei cambiamenti dei flussi commerciali; diminuzione del 30% delle esportazioni italiane verso la Germania; in Europa saranno penalizzati alcuni settori dell’agricoltura, della produzione di legname e della pesca; diminuiranno le esportazioni europee di cereali, pollo e etanolo; rischiano di essere ridotti gli standard di sicurezza alimentare, che in Europa riguardano l’intera filiera produttiva e non soltanto il prodotto finale; possibile delocalizzazione di alcune imprese negli Stati Uniti dove il costo della manodopera è più basso; il trattato prevede l’istituzione di tribunali tecnocratici sovranazionali a cui spetterà la risoluzione delle dispute tra aziende ad amministrazione pubblica.
Tra tanti dettagli si annida un rischio ulteriore: quello di un latente sgretolamento della struttura del mercato unico europeo, sul cui altare negli ultimi anni tanto è stato sacrificato. Se aumenterà l’interdipendenza commerciale dei singoli Stati europei con gli Usa, sarà inevitabile una diminuzione di quella interna all’Unione. E in un’epoca in cui il commercio è anche identità politica e strategia militare, varrebbe la pena farci attenzione.
Non è un buon momento, infatti, per il commercio mondiale, che va sempre più a rilento e per i tentativi di rianimarlo a colpi di liberalizzazione. In realtà, a causa delle numerose incompatibilità, il trattato è morto da tempo e la salma non si decompone solo perché la tengono al buio e in ghiaccio.