“La bellezza salverà il mondo”. Così, il principe Myshkin, anima nobile almeno quanto ignara delle ombre del mondo, invita un agonizzante sedicenne, Ippolit, divorato dalla tisi, ad apprezzare la vita che lo circonda. Per il primo la bellezza si nasconde dietro agli alberi che costeggiano i marciapiedi o in una conversazione inaspettata con uno sconosciuto. Per il secondo anche l’essere più abietto e insignificante, un moscerino a cui nessuno presta attenzione, compartecipa della bellezza della vita, che il giovane, invece, non ha altra scelta se non quella di osservare da lontano, consapevole che presto anche questo ruolo gli scivolerà tra le dita.
I due protagonisti de L’Idiota si fanno portavoce di un conflitto molto ricorrente tra le pagine di Dostoevskij tra un bello forgiato dall’uomo nel semplice atto di riconoscerlo e un altro che, facendosi da sé, esclude l’osservatore. Il primo investe chi guarda dell’impegno a crearlo e preservarlo, il secondo deresponsabilizza, invitando a una pericolosa indifferenza. Il “mondo” di ingiustizie di cui Dostoevskij auspica la riforma e la salvezza, ad opera di un bello morale, condivide lo stesso morfema della parola russa “pace”: “mir”. Il significato della citazione su cui fiumi di pubblicazioni accademiche si sono espresse diventa allora più chiaro: “la bellezza salverà un mondo pacificato” dal male che lo divora. Mai più di oggi la speranza che l’”idiozia” letteraria di apprezzare il buono che il mondo ha da offrire diventi normalità è irraggiungibile. Questo perché il mondo (“mir”) è tutt’altro che pacificato.
Mancano pochi giorni all’anniversario della guerra in Ucraina, guerra in cui la bellezza, da motore di salvezza quale avrebbe dovuto essere, ha giocato il ruolo di target ripetutamente gettonato dal mirino russo. 6 marzo 2022. È il piccolo museo di Ivankiv a diventare teatro del primo di una lunga serie di attacchi in cui le manovre ideologiche hanno la meglio sulla strategia militare. Ospitava le opere della pittrice Maria Prymachenko, artista affermata, apprezzata dallo stesso Picasso, che definisce la sua produzione artistica, “un miracolo dell’arte”. Ora 25 suoi capolavori restano soltanto nel ricordo dei sopravvissuti e, con essi, la cultura ucraina folkloristica di cui si facevano portavoce. Ben distanti dai punti caldi in cui la guerra si sarebbe consumata, i dintorni del museo ne escono indenni, tradendo l’intenzionalità dell’attacco e lo scopo che si prefiggeva: l’annientamento specifico del complesso museale come centro propulsore dell’identità nazionale ucraina.
Tre mesi dopo, nel luglio dello scorso anno, lo stesso infausto destino è toccato al Museo Nazionale e al Museo delle Belle Arti di Odessa. È dall’inizio del conflitto che il caso della Perla del Mar Nero si è rivelato terreno fertile ad alimentare le discordie tra le due parti. Prostrata dalla guerra, Odessa porta ancora su di sé, ben leggibili, le tracce della sua storia, dalla fondazione ad opera della zarina Caterina II fino ai danni che gli attacchi per mano russa (la stessa che l’aveva innalzata) le hanno arrecato.
Ormai dall’Ottocento la spinta russa nella sua fondazione è alla base della retorica che pretende di strappare la città portuale a quello che il Cremlino definisce il distruttivo “regime nazionalistico di Kyiv”. Se da un lato Mosca si è scagliata contro il piano di de-russificazione della città che ha previsto la rimozione di una delle statue di Caterina II, l’Ucraina si è difesa a livello internazionale, smascherando il tentativo di Mosca di piantare la bandiera russa su Odessa, camuffando l’occupazione dietro alla facciata di un fantomatico bellum iustum. Nonostante gli sforzi di Putin di dipingere la guerra con la parvenza di una legittima riappropriazione della città che per revisionismo storico gli spetterebbe di diritto, tanto l’opinione pubblica quanto la comunità internazionale si sono strette in un fronte comune, responsabile della risoluzione del contenzioso a favore dell’Ucraina.
Solo qualche giorno fa, la commissione del patrimonio mondiale UNESCO ha accolto la preghiera che il presidente ucraino più o meno esplicitamente le indirizzava dallo scorso ottobre: l’inserimento del capoluogo nella lista dei siti tutelati dal simbolico vessillo blu, che ne avrebbe sancito lo status di patrimonio dell’umanità. Una mera formalità? Così viene giudicata dalla popolazione ucraina e, in particolare, dagli abitanti della città che, pur grati della mobilitazione internazionale, non rinunciano agli improvvisati scudi fisici di sacchi di sabbia e impalcature di protezione.
La Convenzione dell’Aia del 1954, la prima in cui sia stata riportata in maniera univoca e condivisa la definizione di bene culturale, qualifica automaticamente l’attacco mirato a un sito artistico-culturale su cui sventola bandiera blu come crimine di guerra contro l’umanità. Ma non sono poche le occasioni in cui Putin ha dimostrato di non temere la prospettiva d’incorrere nella condanna né tantomeno nelle conseguenze che essa comporterebbe.
Assicurato il sostegno delle istituzioni sovranazionali, rimane il rimorso, espresso dal ministro della Cultura ucraino Konstantin Akinsha, di un intervento non abbastanza tempestivo. Fino a cinque giorni dall’invasione, i turisti affollavano gallerie e sale d’esposizione, nell’illusione di una normalità che ormai da mesi si era incrinata. È proprio in nome di questo senso di normalità, nella speranza di essere ancora in tempo a scongiurare il peggio, che Zelensky ha dato l’ordine di aspettare. Il 24 febbraio, però, la notizia dell’invasione ha aperto gli occhi, innescando uno spirito di coesione e collaborazione pur in una rete di enti altamente eterogenea. Da forze militari a organizzazioni non-governative, da istituzioni accademiche a musei: un unico fronte per un obiettivo condiviso. Step preliminare alla loro messa in sicurezza, è stato redigere un inventario digitale dei beni culturali da tutelare. Provvedimento, questo, previsto già dalla Convenzione dell’Aia, che solo in casi eccezionali si è tradotto in realtà nei paesi contraenti, per una serie di ostacoli pratici che ne impediscono la stesura. Il carattere volutamente generale della definizione stessa di “bene culturale” la rende per forza di cose suscettibile a diverse interpretazioni; la sua natura teorica la limita nell’applicazione pratica, complicando il processo di univoco e oggettivo riconoscimento di un’opera come tale. Se dunque cavilli di ordine tecnico hanno impedito la redazione di un simile inventario persino agli Stati Uniti, l’Ucraina lo ha compilato in tempi da record.
La motivazione alla base dell’impresa? Preservare quell’identità e storia nazionale che la propaganda del Cremlino pretende non siano mai esistite e che le truppe russe ricevono quotidianamente ordine di annientare per non lasciarne traccia ai posteri. Illazioni su un’Ucraina bolscevica, nata dalle ceneri di quell’Impero Russo che la Rivoluzione del ’17 si è lasciata alle spalle, attraversano la retorica del presidente russo come un filo rosso, volto a offrire in pasto al popolo una chiave di lettura della guerra tale da rendere digeribili le condizioni insostenibili che da un anno gravano sulle spalle della Russia. L’Ucraina, dal canto suo, memore dell’oblio selettivo a cui la sua storia è stata sottoposta quando era ridotta a paese satellite dell’Unione Sovietica, è determinata a non rinunciarvi. È in quest’ottica che la cultura, oltre a lasciarsi salvare, salva essa stessa. Non a caso negli ultimi mesi, manuali e saggi sulla storia ucraina affollano scaffali e mensole di librerie e biblioteche, dentro e fuori i confini del Paese. Se è nozione comune che la storia venga scritta dalla penna del vincitore, in questo caso è vero il contrario: la storia non è un semplice effetto collaterale, ma la ragione stessa per cui l’Ucraina continua a battersi. Sarà la determinazione del preservare la storia nazionale a dettare la storia che verrà. Sotto il peso di una bellezza che il popolo ucraino, proprio come l’idiota, non solo si limita a riconoscere, ma di cui aumenta esponenzialmente il valore ogni volta in cui se ne sente partecipe, e responsabile della sua sopravvivenza.
A cura di Veronica Alessio