È una notte identica a quelle che si susseguono da due anni a questa parte. La penna si poggia delicatamente sul foglio senza far rumore, mentre la mano sinistra solleva delicatamente gli occhiali dalla montatura spessa per toglierli dal volto, richiudendoli con un gesto elegante. A caratterizzare la scena vista e rivista è il fatto che questa volta la parola “fine” non abbia decretato la conclusione dell’ennesimo romanzo di successo o di un nuovo trattato destinato a riecheggiare per i meandri dell’Accademia. A giungere al termine, questa volta, è stato il romanzo più avvincente che ciascuno di noi è chiamato a scrivere: la propria vita. Neppure il professor Umberto Eco poteva sottrarsi ad un evento tanto ordinario quanto unico nel suo genere.
Per chi lo conosceva bene, la tragica notizia della sua morte è piombata come un fendente sulla propria nuca, atteso a causa della malattia eppure mai realmente compreso nella sua portata più profonda. Coloro che, invece, di lui non conoscevano altro che i suoi scritti, le sue interviste o semplicemente il suo nome, non possono fare a meno di rimanere stupefatti, alienati dalla triste scoperta. È come se fosse morta una persona che ciascuno di noi conosce, uno di quegli individui che ci capita di incontrare di tanto in tanto mentre siamo sulla via del ritorno verso casa, che incrociamo lungo le scalinate del nostro palazzo e salutiamo a mezza bocca perché, nonostante la distanza che ci separa, il suo volto ci risulta immancabilmente familiare. Per me, Umberto Eco era innanzitutto questo: un volto familiare, un volto che colpevolmente conoscevo poco, un volto che mi ispirava fiducia pur non avendo avuto occasioni di conversare con lui, perché la distanza che ci separava era ampiamente superata dalla sua grandezza.
Un personaggio di cui chiunque è pronto a ricordare l’autorevolezza che scaturisce dai suoi straordinari meriti accademici – sono da citare le quaranta lauree honoris causa da parte di università europee ed americane – ma a cui concorre allo stesso modo un merito fin troppo sottovalutato: l’amore che l’illustre semiologo provava per il riso. È proprio il riso ad essere il soggetto del suo romanzo più amato dal pubblico ed odiato da lui stesso – celebre l’aspro giudizio espresso nei suoi riguardi all’interno del Salone del libro di Torino nel 2011, in cui affermò che Il nome della rosa fosse il suo libro peggiore -. Il mistero che circonda il secondo libro della Poetica di Aristotele all’interno del romanzo è per il filosofo l’occasione di esprimere un lato della sua personalità che troppo spesso viene oscurato dall’austerità del mondo universitario, ossia il suo amore per quello stesso riso che ha contraddistinto la profonda leggerezza con cui ha sviscerato la complessità del nostro tempo. Un amore che i suoi amici commemorano ricordando la sua passione per lo scherzo, la compagnia e il tempo trascorso ridendo con le persone a lui care. Un piacere di cui non volle privarsi neppure quando i giorni cominciarono a tramontare.
A partire dagli studi giovanili condotti con Luigi Pareyson, l’interesse principale di Umberto Eco è stato quello di comprendere come si sviluppi il nostro modo di raccontare il mondo, su quali presupposti si fondi il concetto di “significato”, di “interpretazione”, abbracciando nella sua audace curiosità ambiti della comunicazione come il fumetto, la televisione, internet. La Fenomenologia di Mike Bongiorno, che tanto fece piangere il celebre conduttore, è l’esempio di come la ricerca intellettuale del professore sia innanzitutto un modo per capire di più noi stessi, comprendere le implicazioni sociali dietro ai fenomeni di costume, senza lasciarsi incasellare in sentieri già percorsi da una tradizione che risultava sempre troppo stretta.
Prima di essere un eccellente filosofo, però, Eco era innanzitutto un “corsaro”: nel 1954, assieme ad intellettuali come Gianni Vattimo, vinse il concorso RAI che aprì le porte di un mondo del tutto nuovo per la semiotica, un’occasione importante ma estremamente difficile da sfruttare. Si trattava di “svecchiare” i programmi della tv di Stato, troppo legati alla vecchia guardia dell’EIAR. Il ruolo centrale che di lì a poco la RAI assumerà nella cultura nazionale sarà il più grande merito di quel gruppo di “corsari” di cui lo stesso Eco faceva parte.
Nessuno ha mai stabilito che gli esploratori debbano adoperare per forza un cannocchiale per scrutare l’orizzonte: a volte basta semplicemente un paio di occhiali dalla lente sufficientemente ampia e spessa. L’importante è che dietro di essi vi siano due occhi abbastanza curiosi per poter abbracciare l’infinito che si nasconde dietro le apparenti piccolezze che compongono il nostro interagire con il mondo circostante. Mentre la penna giace ancora sul foglio, gli occhi di un grande esploratore si sono appena oscurati sopraffatti da un mistero troppo più grande di loro.
Chi può dire, però, che non abbiano ancora un orizzonte da indagare?
A cura di Riccardo Antonucci