Il primo film ad esibirsi nella sezione “Venezia ’72” categoria di concorso principale della Mostra internazionale del cinema lagunare è “Beasts of no nation” di Cary Fukunaga, regista già noto al grande pubblico e agli addetti ai lavori per aver diretto con successo la prima stagione di “True Detective”, serie cult targata U.S.A. molto seguita anche in Italia. Le bestie cui fa riferimento il titolo sono i bambini-soldato che vengono reclutati tra i profughi, gli orfani e i disperati di nessuno, che vagano nel meraviglioso e crudele suolo africano.
Agu ha otto anni, vive con la sua famiglia, madre, padre e due fratelli in quello che viene chiamato stato cuscinetto, una di quelle terre senza nome e senza padrone che sono di tutti, quindi di nessuno e diventano perciò facili prede dei vicini territori, affiliati invece a questa o a quella bandiera. Quando i militari occupano il suo villaggio, distruggendolo, la famiglia di Agu si frantuma: la madre e la sorella più piccola partono fortunosamente per la capitale, il padre e il fratello maggiore vengono uccisi ed il bambino scappa rifugiandosi nelle foreste. Qui incontra un esercito di guerriglieri giovani, di cui molti solo bambini, tutti al seguito del “Comandante”, uomo carismatico, tanto misterioso quanto ambizioso, un mercenario che ha masticato più guerra che vita normale e che decide di arruolare il ragazzino tra le fila dei suoi più stretti fedeli, addestrandolo a diventare uno spietato assassino.
Inizia così un viaggio feroce e innaturale nella vita degli eserciti dei bambini-soldato, una discesa progressiva e irreversibile in tutti i gradi della violenza cui un confitto imprevedibile che non risponde a regole o confini – come sono molti di quelli presenti oggi in Africa – può dare forma. Agu perde la sua fanciullezza in modo bestiale: il suo stare al mondo con poche cose, ma con una felicità ed una fantasia commoventi, così come ci viene fatto vedere ad inizio film, sono cancellati dall’unica alternativa che gli si presenta ossia sopravvivere a costo di dare la morte; se ciò segna un adulto, figuriamoci un bambino, il cui unico scampolo di umanità resta il ricordo della madre che spera di re-incontrare. Quale destino per una creatura così? Anche se accolta, anche se ripescata in un’apparente oasi di pace e riabilitazione, quale futuro, quali sogni gli si possono concedere, o lui stesso potrà desiderare? E’ un bambino ed un criminale e da questo non si torna indietro. Perchè la guerra è un fenomeno umano, devastante ed irrimediabile, ti prende l’anima e non te la ridà più; ti cambia per sempre. “L’unico modo per non combattere è essere morto” dice Agu in un momento in cui fuori dall’euforia e dall’apparente protezione del suo esercito-famiglia, desidera lasciare tutto.
Sembra un inferno in terra e probabilmente lo è, ma la storia non affoga in questo registro: non ha infatti il sapore della violenza fine a se stessa, nè della lezione, non contiene colpe, nè morale, evitate entrambe in modo intelligente e punta su una narrazione spontanea, che modula i toni e la distanza dall’oggetto, senza fare di un dramma un dramma, ma dimostrandosi, piuttosto, un reportage biografico, che parla da sè. Esemplare l’immagine di un bambino che fuma con in mano un mitra. Tanto basta. Fuor di giudizio e di discriminazione è con questa realtà che è difficile fare i conti, perchè si tende ad ignorarla molto facilmente. E’ faticoso e troppo doloroso concepire stati frammentati in venti e più governi differenti, ognuno con priorità e pretese diverse e molto spesso confliggenti che si danno battaglia con armi occidentali provenienti da chissà dove in un mosaico di sopraffazioni reciproche e/o di odio indistinto che non conosce regole, onore, sesso, religione, appartenenza etnica o tribale ed, evidentemente, età. Il tutto in un continente così vicino al nostro: in tal senso “Beasts of no nation” è un film attuale, “trasversalmente sul pezzo”, che dovrebbe essere visto e conosciuto in più contesti nazionali, in primis il nostro, così geograficamente vicino al territorio africano e ancora incapace di accogliere efficacemente le richieste d’aiuto da lì provenienti; non è questo il suo compito eppure la pellicola contribuisce a non far voltare la testa altrove, ricordandoci che gli orrori leciti non sono solo i nostri.
Restano a far luce in fondo a tutto questo scempio le parole dello stesso Agu, un bambino che vuole ancora essere tale, nonostante tutto: dietro ogni bestia c’è una mamma che ha amato quella bestia, una famiglia radicata nel sangue e questo è o ci si augura sia più forte di tutto il resto. Ben assortito il cast: il giovane protagonista (Abraham Attah) ha lo sguardo muto e distante di chi ha visto troppo e troppo insieme e risulta un perfetto piccolo uomo, che non vuole smarrire la felicità. Ottima presenza anche per il “Comandante” interpretato da Idris Elba magnetico, ambiguo, fuoriluogo e aggressivo in modo subdolo, contraltare perfetto alla perdita dell’innocenza, profeta di un’atroce iniziazione. Colonna sonora rada e sporadica, ma di imprevedibile effetto è costituita da piccole strofe rap in lingua africana o giochi di parole o filastrocche ritmate, canticchiate da bambini, suoni senza ombra, ma pieni di leggerezza, simbolo e sintomo di una gioia vitale che nessuno più del popolo africano, ha in destino di vivere e può insegnare al mondo.
di Flavia G. De Lipsis