“La critica della ragion pura non poteva essere opera di un uomo che aveva cinque penne di struzzo sulla berretta, la Nona sinfonia non è stata creata da un uomo che portava attorno al collo una patacca grande come un piatto” – Adolf Loos
Certo la bellezza del pragmatismo non è tenuta in gran conto quando si parla d’arte, ma una città non è un gioiello, non deve rispondere al wildiano “art for art sake”; è luogo e strumento di vita, e se la si trascura lo spazio soffoca nella sovrabbondanza della carnalità. Una volta era “la spina di borgo”, un dedalo di viuzze che conduceva da Castel Sant’Angelo a Piazza San Pietro, dono di un principe dell’arte, Gian Lorenzo Bernini; prendeva il pellegrino, il viaggiatore, l’abitante, dal vicolo minuto e lo lasciava stupefatto in balia della grandezza, nel pien della piazza, e il tutto traeva forza da un gioco prospettico unico, non casuale, geniale in epoca barocca. Anche la genialità appassisce con il fluire del tempo e diventa patologia, Bernini non era indiato era anch’egli carne, era uomo calato nel suo qui e nel suo ora, era un sacerdote del culto della lentezza, così nella scoperta di Piazza San Pietro. La lentezza non è cosa nostra, come non era dell’uomo del 1936 e l’attualizzazione del Piacenti è stata condotta bene, via il vecchio che è diventato patologico e su il nuovo della cui natura si partecipa, giù le viuzza imputridita, che ha perso la sua ragion d’essere insieme agli uomini che l’avevano partorita e su il boulevard, che si può sentire proprio, in cui ci si può specchiare. Possiamo piangere (con poca onestà intellettuale) su una spina che non c’è più ma che con tutta probabilità ci avrebbe ferito piuttosto che dichiarare, senza mistificazioni, che ci è molto più vicino Piacentini rispetto al barocco, ma questo non cambia nulla; per quanto sia meraviglioso crederci in continuità con il Bernini, amiamo la rapidità del colpo d’occhio rispetto alla ponderazione della passeggiata. Sia chiaro, anche il monumentalismo ci è alieno ma è figlio di uomini simili a noi, agitati dalla frenesia del moderno, agitati dal lavoro, dal piacere, dalla sommossa, per usare una citazione; simili e non uguali, i padri del razionalismo erano migliori, avevano un’estetica propria, amata od odiata che sia, cosa che il XXI secolo, compiaciuto dal furto e mai dalla creazione primigenia, ancora non ha trovato, i padri costruivano, fieri e convinti di poter creare qualcosa di migliore. Ci troviamo spaesati quando cerchiamo di pensare ad uno stilema per il nostro tempo, proprio perché siamo incapaci di posizionarci senza considerare i prolegomeni architettonici del nostro presente, proprio per questo odiamo Piacentini e Haussman, uomini vivi, senza complessi d’inferiorità verso i loro predecessori, capaci di fare come quelli, distruggere e costruire. Siamo inetti, legati mani e piedi dall’ambascia dell’errore e bloccati dalla religione del pentimento, sordi al grido “non tutto ciò che è antico va salvato”; senza questa prova di maturità, questo vero e proprio momento di passaggio dalla fanciullezza, dove non si seleziona, all’età adulta, luogo temporale della priorità, ci troveremo a vivere tra sassi antichi che parlano una lingua sconosciuta perché dimenticata, nulla a che vedere con le faconde pietre di cui parla Ruskin, ci troveremo ad essere guardiani di musei e affittacamere ad ore per gli amanti di tutto il globo, sparendo noi sotto il peso della vita che fu. La via pavimentata a sampietrino va salvata, il singolo sampietrino va fatto in polvere e impastato nella calce affinché reificandosi torni a parlare in lingua corrente. Roma è un coacervo di stratificazioni: latina, papale, regia, fascista, manca solo la Roma contemporanea, che deve ancor nascere, con lo sguardo rivolto non ad un’ulteriore estensione spaziale, al solito, fagocitando quartieri rurali che cittadini non erano, ma ricostruendo o semplicemente ripensando il nucleo, considerando le necessità di spostamento dei vivi e non le reliquie dei morti. Come ben scrive le Corbusier nel suo “Manière de penser l’urbanisme” la bellezza non è determinata solo dalla qualità estetica, ma anche la praticità, la velocità degli spostamenti ha valenza fondativa della bellezza cittadina, l’uomo che butta ore della sua vita spostandosi non può apprezzare la bellezza, ed è per questo che l’architetto francese pensa la città utilizzando il concetto di unità di tempo. Pensare ad una città monumento: immutabile, statica e ferma è claustrofobico ed irreale, quindi torniamo a giocare con decostruzione e ricostruzione in senso ludico e barbarico, alla Depero, citando Achille Bonito Oliva; come uomini, non uber ma nemmeno untermensch. Insomma la bellezza come il cosmo nel pensiero di Tommaso d’Aquino è creata per “volontà ed intelletto” , il momento della pianificazione è tutto, pianificazione che non può prescindere dal momento funebre, dall’addio a ciò che ormai risulta patologico.
A cura di Andrea Locatelli