I dati forniti dalla polizia di stato riguardo la violenza di genere sono agghiaccianti: senza distinzione di latitudine, ugualmente da nord a sud in Italia, sono 88 le donne che ogni giorno subiscono violenza, esattamente una ogni 15 minuti.
Un crimine atroce ancora troppo spesso nascosto nella rete di un tessuto sociale che tende a normalizzarlo, o peggio giustificarlo.
Ed è proprio tale giustificazione culturale ad aggravare la situazione sino a livelli esasperanti, essa si manifesta nella contraddizione che caratterizza tale fenomeno da un punto di vista istituzionale. Se infatti da una parte i principi della democrazia e della convivenza civile vengono difesi a spada tratta dall’opinione pubblica, dall’altra è la nostra stessa cultura a sostenere e promuovere micro-atteggiamenti impercettibili che ancora giustificano la violenza e tendono a fomentare una cultura della “vergogna” della donna.
In modo particolare, le istituzioni mancano di attenzione nei riguardi delle cosiddette “vittime collaterali”: i figli, testimoni involontari dell’atto di ferocia più subdolo. Vittime indirette che vivono la violenza non solo nell’ atto concreto della stessa, ma anche e soprattutto, nella quotidiana aria domestica. In Italia, negli ultimi 5 anni, 427 mila minori hanno assistito a situazioni di violenza domestica nei confronti delle proprie mamme. Denominata “violenza assistita”, essa rappresenta un fenomeno troppe volte sottovalutato ma dalle conseguenze drammatiche sul minore: dai ritardi nello sviluppo fisico-cognitivo, ai sensi di colpa, all’incapacità di socializzare, sino all’esercizio della medesima violenza nei confronti di future compagne.
Un fenomeno gravissimo, ma ancora sottostimato dalle istituzioni: se infatti il reato di “violenza assistita” è stato riconosciuto dalla legge n. 4/2018 che tra le altre cose, ha previsto un fondo a favore degli orfani per crimini domestici, ed esteso l’applicazione dell’articolo 577 del codice penale (sulla violenza domestica) anche ad eventuali conviventi (non solo dunque al coniuge), mancano ancora decreti attuativi che consentano di disporre delle risorse per intervenire urgentemente.
Ciò che serve sono servizi specifici, atti ad affrontare il problema in maniera consapevole e concreta: le mosse istituzionali in tal senso sembrano tendere ad un atteggiamento di pietà piuttosto che a politiche di prevenzione, attivismo ed empowerment. Urge la promozione di un tessuto culturale che educhi alla parità di genere: ciò non può essere auspicabile se non attraverso una stretta collaborazione tra scuole, associazioni, famiglie ed istituzioni.
La violenza è una realtà sociale che nasce da una questione educativa: onde essa venga a mancare all’interno del contesto familiare diviene centrale il ruolo delle istituzioni scolastiche, che divengono luoghi non solo di sensibilizzazione e prevenzione, ma di vera e propria lotta e protezione delle vittime più indifese. Attenzione particolare va rivolta alla scuola primaria nella realtà di quartiere, alle iniziative che ogni giorno gli insegnanti s’impegnano a portare avanti: attraverso i percorsi di prevenzione rivolti ai più piccoli, finalizzati ad educare all’affettività, alla parità dei sessi, alla condanna della violenza di genere e tutte le forme di discriminazione; e, soprattutto, a mettere in discussione quei meccanismi di minimizzazione della violenza, troppo spesso sottostimati.
Al fine di ciò è tuttavia necessario che le istituzioni riconoscano la centralità della scuola pubblica in questo contesto e incoraggino tali iniziative, provvedendo a misure concrete per affiancarla in un compito tanto delicato. Psicologi e sportelli d’ascolto composti da referenti formati sulle azioni di prevenzione ed azione da attuare, appoggiati da un sistema di risorse che ne consenta l’azione effettiva quando necessaria, sono essenziali.
Tuttavia, purtroppo lo stato provvede solo in misura minima a tali mezzi, lasciando troppo spesso gli insegnanti soli ad affrontare realtà non solo delicate, ma potenzialmente pericolose.
In un quadro ben poco roseo, i veri eroi divengono proprio quegli stessi insegnanti, collaboratori, psicologi, che ogni giorno agiscono nel loro piccolo alla lotta contro il crimine più traumatico cui un bambino non dovrebbe mai essere sottoposto. Queste lotte sebbene limitate alla realtà di quartiere, hanno un impatto straordinario: ne è esempio concreto quello di una piccola scuola primaria nel noto quartiere romano di Monteverde, la storica Giorgio Franceschi (oggi “Istituto Comprensivo via Fabiola”), che il 25 novembre scorso ha organizzato e promosso il progetto “io non ho paura”, un convegno di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, focalizzato a sottolineare il ruolo della scuola in ambito educativo, della società nella salvaguardia delle donne e della politica nella discussione delle mancanze delle leggi contro il femminicidio.
Attraverso l’intervento di ospiti competenti, quali l’onorevole Giuseppe De Cristofaro (Sottosegretario al MIUR), la Dottoressa Viviana Isernia (referente EDU Lazio per Amnesty International) e molti altri, si è voluto porre l’accento sulla funzione di appoggio e guida della scuola, a seguito del trauma e del vuoto incolmabile di minori spesso lasciati in balia di assistenti sociali o, nella migliore delle ipotesi, di nonni anziani e sopraffatti dalle responsabilità, dalle difficoltà economiche e abbandonati dalle istituzioni.
Quello delle vittime trasversali è un problema reale, un problema di abbandono e di solitudine, ed esempi come quello della scuola G. Franceschi ci ricordano che, citando Thomas Merton , nessun uomo è un isola: tutti, nel nostro piccolo, siamo chiamati all’assistenza ed alla collaborazione, al fine di proteggere la vittime più indifese di quello che è uno dei crimini più atroci ed infidi del ventunesimo secolo.
Articolo a cura di Chiara Micheli