Viaggio nella vita mentre il tempo le volta le pagine. La vita è una madre indiscussa ed eterna, un abisso di luce che credi di aver circoscritto ma che l’attimo dopo rivoluziona i tuoi punti fermi e rimette in moto il viaggio. Irrazionale, imprevedibile, uccide per bellezza e crudeltà, è un istinto che non siamo in grado di reprimere, a cui sempre facciamo ritorno, perchè? Perchè l’amiamo? Terence Malik porta in concorso a Venezia ’73 “Voyage of time: life’s journey” la sua ultima, primigenia risposta a quest’interrogativo critico ed ingombrante, una risposta che si porta dietro dagli anni ’70, da cui non ha mai preso le distanze e di cui ha continuato a percepire l’urgenza netta in tutti i suoi lavori successivi, sempre permeati delle più grandi domande sull’esistenza umana. “Madre cosa amo, quando ti amo?” frase simbolo di quest’opera, sintetizza in un lampo il dialogo con Dio che Malik inscena in quest’ode filmica: l’amore per l’amore, la vita come forma più alta e più tradita d’amore e la divinità che è femminile e ha qui la voce potente, calda, profonda di Kate Blanchett, nella versione estesa di 90 minuti (ne esiste una ridotta di 40 minuti, in cui la voce narrante è di Brad Pitt, che ne è anche produttore). Le splendide sonorità dell’attrice ci accompagnano in questo viaggio di suoni, colori ed immagini, raffinatissimo, in cui tutto sembra recitare naturalmente, in puro stile Malik, tutto esprime senza sforzo, tutto è ciò che deve, né più né meno, come una sorta di preghiera arcaica ed universale, che abbraccia del suo amore ogni latitudine geografica, tocca il piccolo e il grande vuoto che l’uomo possiede per indole imperfetta e lo solleva con rara e lucida bontà nella grazia dei cieli.
Non è un documentario magistralmente compiuto, non è la ricerca di una forma estetica fine a se stessa, non è un inno religioso a quel qualcosa che ci tiene vivi ed uniti, non è un film che ci racconta storie e personaggi attraverso immagini, è tutto questo fuso insieme in un atto d’amore autentico come poche cose ancora oggi fruibili su grande schermo. Non è un film per tutti, ma sicuramente è di tutti, è un’opera d’arte, proviene ed appartiene ad un’altra categoria. E la cosa sorprendente è che, trattandosi di un artista come Malik, non c’è coraggio, né dimostrazione, né indicazione di risultato, ma una partecipazione radicale e spontanea al mistero e alla speranza, una testimonianza profonda della bellezza della vita in perenne moto verso qualcosa, pur di raggiungere una forma, una verità o anche solo un momento di stasi per poi riprendere il viaggio verso lo splendore e lo sconosciuto. E’ mistica e filosofia della natura, è architettura delle immagini, è studio maniacale del montaggio, cosa far vedere, quante volte farlo vedere, a che velocità e come tutto questo possa parlare trasversalmente alle anime di chi guarda, mentre la voce della Natura sembra mettere ordine alle domande che ci nascono tra le costole e la spina dorsale. E’ un’opera magnifica, suggestiva, un cantico delle creature fedele e quasi ingenuo, dato in pasto a chi ne voglia mangiare perché ne ha sempre mangiato o a chi se ne ciba per la prima volta.
E’ scienza al servizio dell’arte, è prova di pura libertà creativa, in funzione di un’esigenza che ha sempre guidato il cammino artistico di Malik: già in “Tree of Life” (palma d’oro a Cannes 2011) il regista aveva bussato alle porte della trascendenza inserendo alcune scene di galassie, pianeti, dinosauri ed esplosioni, ed oggi spalanca completamente quelle stesse porte e lascia libero il suo personale viaggio nel tempo che diventa viaggio nella vita da quando era, a come è, a come, in qualche modo, sarà. Oggi è possibile vedere questo percorso immaginifico: c’è la tecnologia necessaria, la maturità e l’ innato irreprimibile bisogno di spiritualità. Così ripercorriamo la storia della vita sulla terra, dalla nascita dei pianeti, alle prime forma di vita nell’acqua, attraverso gli altri elementi naturali, terra, fuoco, aria, fino ad arrivare agli uomini, i primi esseri complessi che irrompono, si fondono e frantumano la danza creativa della natura. Ed oltre loro la possibilità di una nuova forma di vita: cosa nascerà? Immagini sontuose, riprese curatissime, al limite del patinato, splendida fotografia, ricostruzioni digitali di dinosauri, vulcani, protozoi, nembi e stratosfere, alternati a flash video scadenti di metropoli ipertecnologiche, zone bombardate, senzatetto randagi, occhi di bambini sperduti che racchiudono il mondo disperso, la promessa mancata, il futuro che non ha casa.
Questi lampi di squallore umano distolgono e scarnificano l’armonia del creato e del creante cui l’artista vorrebbe tendere, e alimentano il dubbio, la rabbia, la necessità di trovare spiegazione e rimedio. Dov’è l’amore? Dove abbiamo smarrito la madre di tutte le madri, la madre che ci è madre a prescindere, dove il suo sguardo non ci ha colto più e non abbiamo più sentito la sua mano, quella mano che un tempo c’era e guidava vigorosa il baricentro della nostra piccola faccenda sulla terra verso le meraviglie indiscusse della natura. Nascita, riproduzione, estinzione, rigenerazione, cicli di vita, accostamento emotivo di immagini a parole che provocano nello spettatore un viaggio autonomo e prezioso nell’intimità dell’universo e nell’intimo di se stessi, qualcosa di piccolo che contenne qualcosa di grande che contenne noi. Lacrime di meraviglia per un autore che riesce sempre a sorprendere “senza far altro che” dare spazio alla propria fede, che continua a viaggiare sulla terra ma con la testa rivolta verso l’alto per riuscire un giorno a scorgere cosa si muove sopra le nostre vite. Con questo lavoro è un passo più vicino a Dio. Qualunque complessità o semplicità esso significhi. Credere è farsi delle domande e mettersi in viaggio. E siamo già altrove. Io ringrazio.
A cura di Flavia Germana De Lispis